COME UNA CAPINERA – di Emanuela Ferrauto

COME UNA CAPINERA
Impossibile dimenticare l’elegante ed emozionante versione cinematografica di Storia di una capinera, testo firmato da Giovanni Verga, caratterizzato da una forma epistolare affidata alla penna di una immaginaria novizia costretta ad assecondare le leggi di monacazione forzata che vigevano ancora in Sicilia, alla fine dell’Ottocento. La storia di Maria, che adolescente fu relegata in convento e successivamente fu portata fuori dalle mura del noviziato a causa della peste che incombeva ancora a Catania, è stata narrata attraverso l’occhio sapiente del regista Franco Zeffirelli, che nel 1993 girò il film tra la città di Catania, la piana di Catania e i paesi alle pendici dell’ Etna, regalando allo spettatore immagini di grande poesia. La versione cinematografica perde, naturalmente, la connotazione linguistica verghiana, utilizzando attori stranieri doppiati, così come l’adattamento teatrale di cui vogliamo parlare – in scena prima a Salerno presso il Teatro del Giullare, e poi a Napoli  il 25 e 26 marzo presso la suggestiva Basilica dello Spirito Santo –  modifica la trama temporale prevista dall’autore siciliano.
Si racconta di una giovane novizia, conosciuta realmente da Verga a Vizzini, costretta alla monacazione: da qui, probabilmente, nasce l’idea dello scrittore siciliano e da questo incontro si sviluppa il dolore generato da un amore impossibile. Il verismo verghiano emerge attraverso la descrizione accurata delle giornate trascorse da Maria in campagna, durante il periodo di quarantena: paesaggi, odori, profumi, personaggi legati alla servitù, tradizioni, cibo. Il mondo che le era stato precluso, spesso descritto come luogo di perdizione, le appare invece strabordante di vita, tanto che la penna verghiana riesce a trasmettere gli odori della campagna siciliana, oltre alla complessa alternanza degli stati d’animo della protagonista, fino al deperimento totale del suo corpo e della sua anima alla notizia del matrimonio tra l’amato Nino, conosciuto durante il periodo trascorso in campagna, e la sorellastra Giuditta, figlia della seconda moglie del padre, simbolo dell’ unione di casate e di patrimoni che ancora sopravvivevano alla decadenza nobiliare ottocentesca. La connotazione, in parte romantica, che evidenzia l’aspetto larmoyant dell’intera vicenda, sostenuta dall’immagine della donna addolorata per un amore impossibile, sembra emergere fortemente nell’ adattamento cinematografico, mentre in quello teatrale ritroviamo la descrizione della vicenda attraverso il recupero del flashback. Il diario di Maria è riletto e rivissuto dalla protagonista post mortem. Il regista, quindi, sceglie di riportare in scena una donna anziana, dai capelli bianchi ed il viso rugoso, spingendo lo spettatore ad immaginare un’ intera vita trascorsa all’interno del Convento. Verga ci propone un diario epistolare che Maria indirizza a Marianna, la sua amica novizia, la quale decide, dopo la quarantena, di non rientrare più in convento, di non prendere più i voti e di convolare a nozze. Maria accetta il suo destino, a causa delle precarie condizioni economiche della sua famiglia: si comprende, così, il motivo del secondo matrimonio del padre con una donna ricca, il continuo ricordo della madre morta, la nuova gerarchia famigliare che eleva Maria a ruolo di primogenita, a causa dell’arrivo dei due fratellastri, da lei accolti, amati e rispettati, seppur non ricambiata. Tutti questi elementi costituiscono, dunque, il nodo centrale della vicenda. Verga non vuole raccontare il dolore di un amore impossibile, descrive, bensì, il mondo dei vinti all’interno di un contesto storico-sociale non necessariamente umile, ma sicuramente ormai in decadenza. Se da un lato la versione cinematografica tiene conto sia della connotazione romantica-ottocentesca, sia dell’esplicito realismo, l’ adattamento teatrale presenta una visione sicuramente più novecentesca, in cui l’analisi psicologica ed il colpo di scena attraggono lo spettatore contemporaneo.
Maria è interpretata dall’ottima Annarita Vitolo, giovane attrice salernitana che ha alle sue spalle una intensa esperienza attoriale: quella verghiana è una protagonista profondamente dolorosa il cui ruolo è personalizzato dall’attrice con grande sapienza. Il corpo e l’anima di Maria si dissolvono: rimane l’essenza polverosa della sua voglia di vivere, rinchiusa nelle pareti della cella di un convento, poi divenute quelle della stanza di una clinica psichiatrica. Verga fa intendere che Maria muore giovane ed il suo diario si interrompe, concludendosi con le parole di una devota amica, Suor Filomena. Il regista Roberto Matteo Giordano, che interpreta anche Nino, sceglie di far invecchiare Maria, di farle rivivere le immagini felici e infelici, di catapultarla negli anni ’60, sotto forma di spettro: il dolore di Maria non si spegnerà mai. La scelta di inserire un finale a sorpresa è apprezzata dallo spettatore che non conosce il testo-fonte e si sofferma unicamente sulle forti emozioni trasmesse dalla storia e dall’interpretazione della Vitolo, ma sorprende, non sempre positivamente, quella fetta di pubblico che ha assaporato il testo verghiano.
 In scena anche Francesca Annunziata, nel ruolo della monaca e, poi, di infermiera dell’ospedale psichiatrico, in compagnia delle voci di Giuditta, del fratellino e di tutti gli altri protagonisti che il cinema ha reso reali, ma che, in effetti, Verga ha cristallizzato nelle parole, attraverso il ricordo di Maria, scelta accolta anche dalla regia di questo spettacolo. La location napoletana accoglie il pubblico all’interno di una cappella oscura, illuminata da candele, immagine certamente efficace poiché relega l’attrice in un piccolo spazio incorniciato da marmi bianchi e da un’ulteriore cappella che fa da quinte e sfondo, nella semi oscurità. Limitate, dunque, le scelte registiche che spingono la Vitolo a muoversi necessariamente tra un letto e una scrivania, attraverso un corpo ingobbito, rattrappito, ma che sembra ringiovanire, seppur brevemente, durante i flashback.
La capinera e la sua prigionia, storica e sociale, sono elementi qui teatralmente e liberamente tratti da Verga, ma sicuramente descritti egregiamente dall’autore siciliano, proprio attraverso le parole riportate nell’introduzione all’opera: <<Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione […]>>.

EMANUELA FERRAUTO

COME UNA CAPINERA
25-26 marzo 2017
Napoli  Basilica dello Spirito Santo
Liberamente tratto dal romanzo di Giovanni Verga ‘Storia di una capinera’
con Anna Rita Vitolo e Roberto Matteo Giordano
e la partecipazione di Francesca Annunziata
Adattamento e regia: Roberto Matteo Giordano Produzione: Palco 11zero8