PUPELLA MAGGIO

di Massimo COLELLA

   Giustina Maria (in arte Pupella) Maggio nacque a Napoli il 24 aprile 1910 da Domenico e da Antonietta Gravante e morì a Roma l’8 dicembre 1999.

   I suoi genitori, titolari di una compagnia teatrale itinerante, portavano spesso i propri figli in palcoscenico in base al repertorio e alle necessità; così capitò anche a Pupella, che dovette il soprannome con cui fu sempre nota in arte al fatto di essere stata posta, anzi legata perché non cadesse, intorno ai due anni, in una culla per una rappresentazione de La pupa movibile “riscritta” da Eduardo Scarpetta – il “riformatore” della farsa in dialetto e padre dei tre De Filippo – sulla base di una pochade francese di Edmond Audran, La poupée.

   Da allora la Maggio non lasciò più il palcoscenico; tuttavia, questa realtà esistenziale non fu mai da lei idealizzata, anzi nei suoi ricordi (cfr. le interviste raccolte e ordinate da lei stessa nel volume a sua firma Poca luce in tanto spazio, Todi, Grassetti, 1995) l’infanzia e l’adolescenza vissute ‘nel’ teatro e ‘di’ teatro sono raccontate e avvertite piuttosto come un dovere e un destino (per queste e altre notizie su Pupella e sulla sua famiglia, cfr. anche la raccolta di recensioni e ritagli conservata nella cartella “Maggio” presso la Biblioteca teatrale del Burcardo a Roma, in particolare i necrologi apparsi su «La Repubblica» e «Corriere della sera» [di Giovanni Raboni], 9 dicembre 1999; Follie del varietà, a cura di Stefano De Matteis – Martina Lombardi – Marilea Somarè, Milano, Feltrinelli, 1980; Si fa per ridere ma è una cosa seria, a cura di Sandro Bernardi, Firenze, La Casa Usher, 1985; Nino Masiello, Tempo di Maggio, Napoli, Pironti, 1994; Sergio Lori, Il varietà a Napoli: da Viviani a Totò, da Pasquariello a De Vico, Roma, Newton & Compton, 1996).

   A Napoli Pupella fu iscritta a scuola, ma non andò oltre la seconda elementare: a suo dire, fu radiata da tutti gli istituti del Regno per aver colpito violentemente una compagna durante una lite, segno – di quel «cattivo carattere» che le fu pressoché plebiscitariamente imputato per tutta la vita.

   Magrissima, un vero scricciolo – «un passerotto con scritto in fronte tutto il dolore del mondo» – con due begli occhi estremamente espressivi, un naso “importante”, la Maggio non fu mai propriamente “bella” (almeno secondo i canoni tradizionali), ma seppe da sempre superare tale aporia grazie alla prorompente vitalità e alla sicura e carismatica presenza scenica.

   A otto anni già cantava nei panni di uno “scugnizzo” in una protosceneggiata dal titolo Vita ’e notte e veniva impiegata come spalla del fratello maggiore Beniamino. Avendo in gioventù una bella voce, si fece apprezzare come cantante; la sua prima passione fu, tuttavia, il ballo: cominciò anche a seguire lezioni di arte coreutica in una scuola di danza, che però ben presto smise di frequentare. Il debutto in un ruolo di prima attrice avvenne nel 1924, in una tournée a Catania, in sostituzione della prima donna di una celebre compagnia d’operetta, Cettina Bianchi, improvvisamente ammalatasi. In effetti, suo padre, Domenico Maggio, in quanto capocomico non era affatto geloso dei propri figli: appena si rendevano autonomi, era permessa, se non addirittura incoraggiata, una scrittura migliore presso un’altra compagnia; non sempre in accordo fra loro, questi, poi, lavorarono spesso insieme.

   Un incidente occorso intorno diciotto anni, fra il 1927 e il 1928, fu la circostanza che, negandole la possibilità di intraprendere un percorso da ballerina professionista, spinse definitivamente la Maggio verso il teatro di parola. Doveva passare del tempo, però, prima che arrivasse alla celebrità e alle grandi compagnie; la gavetta fu molto lunga e per anni Pupella, che intanto, nel 1931 aveva avuto l’unica figlia, Maria, si dedicò al vario e insieme stilizzato repertorio del teatro popolare: sceneggiate, drammi tratti da celebri feuilleton come La cieca di Sorrento o Le due orfanelle, farse, ma anche Rivista, Avanspettacolo, con o senza i fratelli, su tanti palcoscenici, tante “piazze”, secondo la migliore tradizione dell’attore, con un cursus honorum su cui invero si hanno spesso indicazioni alquanto confuse, basate come sono su ricordi e testimonianze non sempre attendibili. Nel 1943 fece anche un serio tentativo di lasciare il teatro, impiegandosi in un’industria elettrica a Terni; ma durò poco e nell’immediato dopoguerra riprese a lavorare con i fratelli Dante ed Enzo nella compagnia di Giuseppe Cioffi, autore di canzoni di successo (Scalinatella, Agata, etc.).

   L’autentica svolta della sua carriera si ebbe nel 1954, quando fu segnalata, sembra dal fratello Beniamino, a Mario Mancini, il quale stava reclutando attori per la Scarpettiana, la compagnia voluta da Eduardo De Filippo per il suo teatro, l’appena rinnovato San Ferdinando, dove il grande attore-drammaturgo voleva mettere in scena, accanto al proprio, il repertorio classico napoletano e, soprattutto, quello paterno. Fu l’inizio di un rapporto attoriale destinato a durare più di vent’anni, con pause e riprese dovute in parte alla forte personalità di entrambi.

   La Maggio cominciò con parti progressivamente sempre più significative nel repertorio di Scarpetta: un vorticare di ruoli da quelli da pochade, francamente buffoneschi, a quelli più sottilmente sentimentali. Un lavoro – questo – che le permise di mostrare ad abundantiam la perfetta padronanza dei tempi comici e la capacità mimica conquistate sulle tavole del Varietà, cui il tempo e il magistero eduardiano aggiunsero la sapienza e l’espressività dei silenzi e delle mezze voci, la forza tragica che erano già nel volto di Pupella (la «faccia di terracotta» di cui parlava significativamente Eduardo), tutti elementi necessari per conquistare il dono del grande attore, quella «verità teatrale» che la Maggio seppe sicuramente raggiungere.

   Il suo primo grande ruolo, che la incoronò prima donna della compagnia ed erede riconosciuta di Titina, fu quello di Concetta, moglie del protagonista Luca, in Natale in casa Cupiello, cui si aggiunsero in successione, in rappresentazioni napoletane o in tournée nelle maggiori città italiane, quasi tutti i principali titoli del teatro di Eduardo.

   In questo ambito, fra i molti in cui Pupella raggiunse una perfezione espressiva universalmente riconosciuta, è necessario ricordarne due in particolare: Filomena Marturano, perché ruolo femminile mitico del teatro partenopeo, ipotecato dall’interpretazione di Titina, per cui era stato scritto: la Maggio, con estrema naturalezza, riuscì a dargli una colorazione diversa e altrettanto significativa, accentuando del personaggio, più che la dimensione rassegnata e sofferente, la combattività, lo spirito di rivalsa nei confronti dell’uomo cui ha dedicato la vita; e, soprattutto, Sabato, domenica e lunedì, commedia pensata e scritta per lei per ammissione dello stesso Eduardo (1959). Incentrata sulla tensione montante nella coppia al centro della vicenda per l’immotivata gelosia del marito, il personaggio di Rosa Priore acquista profondità insospettate proprio grazie alla superba interpretazione di Pupella, che riusciva a comunicare tutte le sfumature di un carattere femminile forte e vitale, ma talvolta fragile.

   Raggiunto un ruolo importantissimo nell’ambito del teatro eduardiano, la Maggio, pur senza abbandonarlo mai del tutto e ritornando spessissimo e per lunghi periodi in compagnia (almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando si registrò una rottura definitiva), sentì il bisogno di tentare altre strade.

   In questa nuova fase della sua lunga carriera, che doveva arrivare fino agli anni Novanta, non va assolutamente dimenticata l’esperienza de L’Arialda, di Giovanni Testori, regia di Luchino Visconti (compagnia Morelli-Stoppa, Roma, Teatro Eliseo, dicembre 1960), testo dei più dirompenti di quegli anni e ritenuto scandaloso: il ruolo della “terrona” Gaetana Molise, vedova Carminati, valse a Pupella per la sua interpretazione «accorata, penetrante, umana» il premio San Genesio.

   Si avvicinò poi al teatro borghese e di “conversazione”, ma ancora fortemente partenopeo, di Giuseppe Patroni Griffi, nel 1963 con In memoria di una signora amica (con Lilla Brignone e Giancarlo Giannini, per la regia di Francesco Rosi) e nel 1974 con Persone naturali e strafottenti (in cui ricoprì il ruolo di Violante). Nel 1967, questa volta per la regia dello stesso Patroni Griffi, aveva interpretato il testo di un altro grande autore del teatro napoletano, Napoli notte e giorno di Raffaele Viviani. Nel 1975 si avvicinò alle fonti settecentesche di quella tradizione, con La monaca fauza di Pietro Trinchera.

   Nella stagione 1978-79 la Maggio entrò in rapporto con lo Stabile dell’Aquila e con il suo direttore, il regista Antonio Calenda, che le propose il ruolo di Pelagia Vlassova nel dramma La madre, che Bertolt Brecht aveva tratto da un testo di Maksim Gor’kij. Accolta la proposta, la Maggio riuscì nella non facile impresa, per un verso, di depurare il personaggio brechtiano – una donna semplice e ignorante che per amore del figlio si avvicina alla cultura e per questa via diviene sempre più partecipe e consapevole del proprio ruolo e della propria funzione – dalle rigidezze ideologiche e dall’impianto didascalico; per l’altro, di recuperare, in parte forse proprio per il tramite della sua originaria esperienza, una recitazione naturalmente “estraniata”, perfettamente congrua al senso profondo e migliore dell’intendimento di Brecht. Questo indirizzo di recitazione giunse a perfetto compimento, et pour cause, nel 1987 con l’interpretazione di uno dei testi sacri del teatro moderno, Aspettando Godot di Samuel Beckett, ruolo di Lucky, con Mario Scaccia, Fiorenzo Fiorentini e Sergio Castellitto.

   Nel 1984, sempre con Calenda, autore del testo con Mario Prosperi, Pupella, che dal 1976, dopo la fine del suo unico matrimonio, contratto nel 1954, si era trasferita da Napoli a Roma, arrivò, sia pure a suo modo, a un altro ruolo capitale di ogni esperienza attoriale, quello di Amleto. Si tratta di Questa sera Amleto, in cui una vecchia attrice durante la guerra, per l’assenza del primo attore, è costretta a sostituirlo, improvvisando, appunto nel ruolo di Amleto; testo, questo, che ricorda nell’impianto La parte di Amleto, che Eduardo aveva scritto nel 1940.

   Nel 1981, intanto, la Maggio era concretamente ritornata al repertorio che aveva accompagnato la vita professionale della sua famiglia, e quindi i suoi anni giovanili, rappresentando La farsa. Lo spettacolo era composto da testi di Antonio Petito e Pupella vi interpretava Pulcinella, una giovane ventenne e Il portaceste del camerino della signora Cazzola, dove il facchino addetto al guardaroba di un’attrice descrive secondo la sua peculiare prospettiva, dietro le quinte, il mondo del vecchio teatro ottocentesco.

   Si trattò del prologo ad un altro spettacolo destinato a grande fama, costante successo e meritati riconoscimenti: ’Na sera ’e Maggio (1982), in cui Calenda riuscì a riportare insieme tutti i Maggio ancora attivi (con l’eccezione di Dante), Pupella, Rosalia e Beniamino, liberi di spaziare nel loro repertorio e, in buona sostanza, nella loro storia.

   Nella rappresentazione (prima al Festival di Montecelio di Guidonia il 31 luglio, poi ripresa per vari anni, fino a toccare le trecento repliche, in tutta Italia e anche al Festival d’automne di Parigi, nel 1984, dove ebbe tre serate) Beniamino e Rosalia presentarono duetti, canzoni, scene comiche, letture di poesie, mentre Pupella tenne per sé Pulcinellae Il portaceste. Il pubblico, in quegli anni spesso tediato a teatro da un eccesso di intellettualismi, ma anche la critica scoprirono o riscoprirono tre autentici attori e una realtà teatrale, e soprattutto umana, assolutamente viva, divertente, commovente. Fu un grande successo.

   Negli anni Novanta Pupella, trasferitasi a Todi, rallentò moltissimo l’attività, ma continuò comunque a rimanere vicina al mondo del teatro: si occupò del Festival estivo di Todi, curò qualche regia, scoprì tra i giovani attori che le capitava di incontrare dei buoni talenti come Vincenzo Salemme e soprattutto Gennaro Cannavacciuolo (custode ed erede dell’importante patrimonio dell’Archivio dell’attrice).

   I rapporti della Maggio con il cinema non furono molto numerosi, ma particolarmente significativi. Si possono ricordare due brevi apparizioni in La ciociara di Vittorio De Sica (1961) e Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962); e, più interessanti, le partecipazioni ad Amarcord di Federico Fellini (1973), in cui ricoprì il ruolo della madre di Titta, il protagonista, e a Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988); nel 1990 apparve nel ruolo di fianco di zia Memè nel rifacimento per la televisione di Lina Wertmuller (in due puntate, ma passò anche nelle sale) di Sabato, domenica e lunedì, con Sophia Loren nel ruolo che era stato il suo cavallo di battaglia. Per la televisione, infine, si annoverano molte sue interpretazioni teatrali, spesso in celebri edizioni delle opere eduardiane.