L’ombra come spazio trascendentale

di Rossella PETROSINO

Napoli. Mentre la città fuori aspetta lo scudetto e le strade esplodono, nella piccola sala del Ridotto del Mercadante si assiste come spettatori indiscreti a una realtà intima ed eccezionale. Chissà, forse tanto intima da riguardare la coscienza! È la storia di un uomo e una donna che per molto tempo sembra abbiano abitato contemporaneamente la stessa casa senza essersi resi conto l’uno della presenza dell’altro. È Assassina di Franco Scaldati. 

Il regista Franco Maresco, maestro di narrazioni cinematografiche sospese tra realtà e finzione, ci offre uno spazio scenico coerente con la sua tendenza di sospendere storie e immagini in un limbo tra documentario e realtà manipolata.  L’atmosfera con cui apre la messa in scena è quasi spettrale: su di un velo opaco fluttuano lentamente cumuli di nuvole che lasciano intravedere un ambiente realisticamente essenziale. La scena, incastonata come un quadro, coglie l’assetto creativo di un testo particolarmente radicato nella cornice di una Palermo primaria, emanandone tanto l’aspetto materico quanto quello immaginifico. Viene ricreata la stanza di una modesta casa che, attraverso pochi simboli – un piano cottura, una sedia e uno sgabello – ci suggerisce essere un tinello, intimamente incorniciato tra tre alti fasci di luce, al centro dei quali troneggiano una radio e due ritratti (che la didascalia del testo ci dice raffigurare i genitori della protagonista). 

La prima impressione è di una rigida fissità espressa da un’organizzazione spaziale già di per sé carica di significati che sembra ricordare il senso di eternità delle ampie piazze di De Chirico dove il tempo cessa di trascorrere. Ma l’umore di sospensione che ne deriva è presto smentito dall’ingresso di una Fanciulla vestita di bianco (Aurora Falcone) che evoca il racconto di una storia come tante e ne materializza in scena la prima protagonista, la Vecchina (Melino Imparato), donna anziana ricurva su se stessa con in mano una scopa. Il suo aspetto malandato, la sua voce roca e tutta la solitudine espressa nel monologo con la sua stessa ombra, ci dicono che il tempo esiste eccome e aggiungono – per di più – che per alcuni individui trascorre più lentamente che per altri e su alcune case aleggia più impetuoso che su altre. 

In quello spoglio tugurio collocato in un antico quartiere di Palermo non vi sono specchi, la Vecchina rivede se stessa nella propria ombra, vi si specchia, si spaventa, non vorrebbe vedere quell’immagine “tale e quale” a sé.  Dice: “idda, ch’i vuoli i mia… mi lassassi ‘n’paci, va’ va’… e mi trizzia, puru… av’u curaggiu i trizziarimi…” rifiuta di essere legata indissolubilmente a quel riflesso di sé, residuo di una vita misera. Lei, come altri personaggi del teatro di Scaldati, non sa di essere vista, o addirittura di essere visibile; questa sua inconsapevolezza svela una dimensione rappresentativa dello spettacolo, ovvero che lo spettatore si ritrova dal principio in una dimensione altra, un paesaggio mentale, uno spazio psichico che ha consistenza. La Vecchina non sa di esistere, alle prese con i propri riti quotidiani che si ripetono in solitudine: stirare l’unica camicetta rimasta del suo corredo, pulirsi sommariamente i piedi, fare i bisogni, innaffiare i nastrini, parlare con la gallina Santina che sta in gabbia. Chi dovrebbe guardare il ripetersi quotidiano di gesti così banali e insignificanti? Con chi potrebbe parlare litigare e gioire se non con il pescecane che scorge nella bacinella del pediluvio giornaliero o con il topo Beniamino che vive nella sua casa-tugurio e tenta di stanare facendo il verso del gatto. Tutto procede come un flusso continuo di gesti e parole; quando viene il momento di mettersi a letto, l’anziana donna esplica l’ultimo rituale della giornata salutando i genitori defunti nei ritratti collocati dietro i lumini per poi recarsi in camera e fare i conti con la fastidiosa mosca Lucina che, come ogni sera, minaccia di disturbare il suo sonno…

Dicevamo non sa di esistere la Vecchina, non sa di esistere fino a quando la luce si spegne, e più che addormentarsi sembra entrare in una dimensione altra; forse è un sogno! Qui nel binomio luce-ombra, i due termini invertono la propria funzione perché soltanto al buio avviene la rivelazione.  Appare un Omino (Gino Carista), l’altro protagonista della storia che entra nella casa comportandosi come se fosse la propria abitazione. Ha inizio il suo rituale: dopo aver fatto i propri bisogni, l’Omino si prepara la cena condividendo il proprio pezzo di pane con la gallina Santina con la quale mostra di avere la stessa familiarità dimostrata dalla Vecchina, poi – proprio come la donna prima di lui – inizia a dialogare minacciosamente con il topo Beniamino. Quando anche per lui viene il momento di andare a dormire, saluta i genitori nei ritratti dietro i lumini, e cerca di dormire mentre la mosca Lucina lo disturba. Anche lui non sa di esistere fino a quando la Vecchina che gli dorme accanto, si accorge della sua presenza. L’Omino reagisce impaurito. La Vecchina altrettanto e, tra le altre, lo accusa di essere entrato nella sua casa per derubarle il sussidio.  Si accorgono l’uno dell’altra insomma e da quel momento in poi sono costretti alla convivenza dello stesso spazio, dando vita a una sorta di rispecchiamento che si riversa pressoché identico nelle azioni, nei modi di dire, nell’appartenenza degli stessi oggetti e della stessa casa. Questo gioco finisce per seminare il dubbio se i due non siano emanazione di un’unica figura, o l’uno l’allucinazione dell’altro, ma poco importa, ci si gode lo spettacolo, accettando di essere su di un piano surreale con individui ritagliati nella materia del fantastico e del sogno!

 Lo spettacolo ha il potere delle fiabe anche rispetto allo sviluppo emotivo: ci si affeziona ai due personaggi che nelle loro interazioni dimostrano di essere capaci di gesti efferati e di tenerezze insospettabili. Quasi ossimoricamente, i due candidi individui si muovono con gesti meccanici ma significativi. I due attori protagonisti infatti attraversano le luci calde e le ombre quasi caravaggesche della scena senza incontrarsi mai, seguendo diagonali precise, assecondando lo spazio metafisico nel quale sono collocati. Questa rigidità spaziale è spezzata di tanto in tanto dall’ingresso della Fanciulla vestita di bianco, che fluttua liberamente in scena come a farsi percepire ma mai vedere, rappresentando con ogni probabilità l’inconscio (“Infinite storie crea u pensier’’umanu”).

In questo scenario dove non è più possibile contare su basi certe, dove persino casa e identità non sono più un punto fermo, la coppia VecchinaOmino implode, diventando doppia faccia di un’unica medaglia. E se la visione inganna e apre diverse possibili risposte, la parola si impone con fermezza attraverso un dialetto duro e sonante insieme. È la lingua di Palermo che, seppur ostica e qui priva di connotazioni temporali, restituisce ricche visioni universali. Parlano una lingua urticante e melodiosa gli attori, certi di essere compresi anche da un pubblico non siciliano, facendo valere una fisicità che affonda le radici nella Commedia dell’Arte.  

 Una prova attoriale superlativa e commovente, con i tre attori che si fanno portatori dell’essenza del teatro di Franco Scaldati. Melino Imparato (nei panni della Vecchina) ci dimostra di essere custode della poetica del drammaturgo siciliano e ci restituisce il suo spirito in maniera immediata e disinvolta; Gino Carista (Omino), pietra miliare del cabaret siciliano, si fa invece portatore del gioco sonoro tipico del teatro scaldatiano, fatto di vocalizzazioni animalesche e suoni preverbali. Tra i due protagonisti è soprattutto lui che, sganciandosi dal significato della parola, gioca con i suoi significanti. È un gioco sonoro che diventa ritornello di un’unica partitura musicale fatta anche di materia gestuale. Quanto ad Aurora Falcone (la Fanciulla), con le sue intermittenti apparizioni in scena rifugge dalle umane vicende, restituendo il lirismo di cui ogni testo di Scaldati è permeato (“Scurrinu luci a colorare cieli…/ scurrinu luci a colorare ciuri… / scurrinu luci a colorare acque… / scurrinu luci a colorare ombre…”).

È un testo questo che mette in campo questioni identitarie in un continuo capovolgimento comico e malinconico al contempo. La transitività delle ombre che assediano prima il testo e poi lo spettacolo fa sì che si possa cogliere un’incertezza non solo sul piano dell’esistenza, ma anche su quello di genere. È per questo un testo molto moderno, portatore di questioni quanto mai attuali, che riguardano la fluidità fra maschio e femmina e la possibilità stessa di superare il suddetto binarismo. È una larva che attraversa lo spettacolo senza falsa retorica, trovando il suo spazio in una delle gags più effervescenti fra l’Omino e la Vecchina e riguarda proprio la confusione tra maschile e femminile. Dice l’Omino «E ch’i sacciu, m’i cunfunnivu… ‘un sacciu chiù cu sugn’e ne’unni sugnu… ‘un sacciu mancu si sugnu fimmin’ o sugnu masculu… iu sacciu sulu c’‘avia sonnu e vulia ruojrmiri…». La forza risiede nella tenerezza e nell’imbarazzo dei due che discutono della rispettiva appartenenza a un genere che passa per la messa in questione dei dati biologici e funzionali: avere la barba e radersi non equivale ad essere maschio.  Donna/uomo, uomo/animale, morto/vivo non sono categorie assolute, sono stati transitori che possono essere modificatiti nella misura in cui ognuno è nell’altro specchio e ombra. È uno spettacolo che emoziona per l’assoluta modernità ed è un’opera preziosamente arcaica Assassina, nella quale sono condensati diversi elementi fondanti della poetica di Scaldati.  

Nel finale poi si riscontra la coerenza della sua visione del mondo che è il suo fare, pensare e scrivere per il teatro come appare già dal testo: “…aranciu svanisce a scena; cuomu ‘o cinema/…recitanu, cretini…”. Il teatro è una finzione alla quale bisogna credere, insieme ai sogni e ai cunti…e aggiungerei alle storie raccontate da Franco Scaldati!

ASSASSINA
Ridotto del Mercadante, Napoli
29 aprile – 7 maggio 2023
Testo del 1984 di Franco Scaldati
qui nella messa in scena del regista Franco Maresco e Claudia Uzzo
regista collaboratore Umberto Cantone
con Gino Carista, Aurora Falcone, Melino Imparato
scene e costumi Cesare Inzerillo e Nicola Sferruzza
video Francesco Guttuso per Lumpen Film
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Teatro Biondo Palermo.
foto di Ivan Nocera