LETIZIA, DAI SOGNI INFRANTI ALLA RIVOLTA CONTRO IL POTERE DEGLI UOMINI

di Antonio GRIECO

Mai come in questo triste passaggio d’epoca segnato da una inaudita violenza di genere in cui l’uomo sembra essere improvvisamente catapultato nella barbarie di uno stato primitivo, testi come “Letizia Forever” di Rosario Palazzolo – scrittore, attore, regista teatrale palermitano – andato in scena (dal 30 novembre al 3 dicembre) al teatro Elicantropo all’interno di una programmazione sempre molto attenta alla contemporaneità, sono necessari. Perché la storia di Letizia – donna siciliana del popolo semplice e tenera, interpretata en travesti (con barba luciferina e una massiccia corporeità molto femminile) da uno straordinario Salvatore Nocera -, che mutua il suo immaginario ascoltando dal registratore le cassette musicali (come in una rivisitazione beckettiana de “L’ultimo nastro di Krapp”) dei suoi amati cantanti degli anni Ottanta (da Viola Valentino a Pupo, ad Alan Sorrenti), in realtà parla di noi, dell’impossibilità (o della difficoltà) oggi, nell’illusorio e consumistico mondo della postmodernità, di rispettare la soggettività dell’Altro come costitutiva di noi stessi, del nostro io, della nostra stessa umanità e dignità. Ecco, allora, che Letizia, il suo disagio psichico, il suo isolamento in un mondo ostile, assume immediatamente un alto valore simbolico, universale, per molti versi anche “politico”. Il motivo di questa nostra sensazione, in fondo, possiamo rintracciarlo già in quegli ininterrotti frammenti di vita, raccontati – alternando l’italiano ad un dialetto siciliano particolarmente efficace ed espressivo – nell’intervista cui lei è sottoposta, seduta su un piccolo tavolo di legno e illuminata da “un occhio di bue” e da una luce stroboscopica dagli effetti stranianti, in una scena desolata e scarna. L’azione si svolge probabilmente in uno spazio claustrofobico, forse un centro di igiene mentale, dove, dopo aver ascoltato le canzoni dei suoi autori preferiti, la giovane donna viene invitata da un ignoto interlocutore a ricostruire il suo vissuto più intimo dalla più tenera età; questa insomma è “la cura musicale” che le è stata prescritta per liberarsi definitivamente da quei fantasmi del passato che non hanno mai smesso di tormentarla. Dunque, quel mondo esterno – quell’universo fantastico (“Io ho studiato, come lettura, nel giornale Sorrisi e Canzoni”) che ha plasmato la sua identità –  è, a pensarci bene, lo stesso che l’ha ricacciata brutalmente in un vicolo cieco dove non ci sono più certezze, né speranze, né sogni da inseguire, finendo per minarne definitivamente il suo già fragile equilibrio interiore. Da questa angolazione, il racconto del suo vissuto – continuamente interrotto dal difficile rapporto con le funzioni del registratore audio che lei stenta a capire – appare particolarmente rivelatore. Letizia, infatti, figlia unica di una famiglia povera (suo padre è un onesto muratore), vive la sua infanzia a Palermo, dove conosce Salvatore di cui si innamora con un colpo di fulmine quando, nel suo quartiere, lo intravede per la prima volta al termine della messa della domenica. Con lui, geometra, scappa, si sposa, e si trasferisce a Milano, dove inizialmente vive una vita felice con i suoi amatissimi figli. Ma, ora, e questo non è certo un aspetto marginale della storia, ci troviamo (lo ricorda più volte nella sua interminabile confessione a cuore aperto) nei “fabulosi anni Ottanta” – in quella “Milano da bere”, indiscusso e vacuo regno dell’immagine, dove – aggiungiamo noi – per dirla con Guy Debord – “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare” -, e dopo aver a lungo notato un diverso atteggiamento di suo marito verso di lei, scopre, quasi per caso, il tradimento di Salvatore con “la bella milanese, tutta vestita alla milanese”. Così, ad una società dell’immagine costruita su di una falsa promessa di felicità, farà da specchio l’inaccettabile infedeltà di suo marito, che lei si rifiuta di accettare. E sarà questa dolorosa scoperta a disintegrarne nel profondo la sua dimensione umana e a condurla verso un incontrollabile delirio omicida. Dunque, alla fine, la sua decisione di vendicare l’umiliazione e la violenza psicologica subite dall’uomo della sua vita, sembra drammaticamente alludere a un più generale atto di ribellione dell’universo femminile, al bestiale e ingannevole comportamento degli uomini: “Non mi interessa niente, tu la devi salutare la milanese … non mi fotti, no! Io non ti voglio guardare più.. posa sto coltello. Io non poso niente”. Poi ci saranno voci solo concitate, seguite da un gesto sospeso nell’atto di offendere. Ciò che difficilmente potremo dimenticare di questo stupendo Monologo, è soprattutto lo spaesamento, l’estrema solitudine di Letizia che vive la sua vita come in una bolla fuori da una realtà che le sfugge e in cui non si è mai riconosciuta: perché “il fatto è ca iddi vogliono sapere la realtà. Ci interessa solo questo a iddi, la realtà…ca la realtà pi mia, è una cosa troppo ingarbugliata”.  E, forse (chissà?), solo dopo quel liberatorio gesto di rivolta contro il suo uomo, Letizia, come tante altre donne, riuscirà a ricomporre davvero tutte le tessere del suo oltraggiato mondo interiore.

Prolungati applausi del pubblico in sala sia alla stupefacente interpretazione, costruita con grande energia espressiva e misuratissimi gesti del corpo, di Salvatore Nocera, che alla drammaturgia di Rosario Palazzolo, (che a tratti fa pensare alla poetica ruccelliana del dopo Eduardo), tra le più intense, originali e attuali viste a teatro negli ultimi anni.