Storia di un oblio
di Rossella PETROSINO
La mia morte non è l’avvenimento più triste della
mia vita, quel che è triste nella mia vita è questo
con vigilantes e persone che si ignorano in
certe vite morte come questo pallore, questa morte
tutto il tempo (1)
Qual è la natura originaria dell’esperienza teatrale?
Ahinoi è molto facile dimenticarlo.
Il teatro è il luogo in cui ha luogo e spazio la comunità politica, ossia la comunità di coloro che si riconoscono come molteplicità con la mediazione del rispecchiamento condiviso. Il teatro cioè è il luogo del reiterato riconoscimento di una appartenenza, appartenenza sancita dalla condivisione nell’evento sacro, ove per sacro si intenda qualcosa di estremamente arcaico e ancestrale. Al San Ferdinando, il giorno 23 gennaio (2), mi sono sentita parte di una comunità. Quando vado al teatro e ciò non accade, vorrei non esserci andata. Perché certamente avrò assistito a una qualche narrazione spettacolare alla quale avrei potuto accedere anche e più semplicemente sui social, senza recarmi in uno spazio teatrale.
Appare particolarmente evidente infatti come la comunicazione sociale abbia progressivamente accentuato – e ormai cronicizzato – le sue caratteristiche spettacolari: nessun comportamento umano, evento naturale o istituzionale sembra sfuggire ad una esposizione sensazionale, massmediale, narrativa e, in estrema analisi, drammaturgica. I social rappresentano e incarnano una vera e propria struttura narrativa e sono popolati da una nuova umanità, quella dell’auto-narrazione, che – seppur in maniera spontanea e disorganizzata – si racconta attraverso un modo e una struttura, che analizzati e guardati dall’esterno, rovesciano i canoni e gli stilemi ordinari della fruizione delle storie, laddove la persona è sempre più personaggio e la vita è sempre più spettacolo(3). La proliferazione delle esperienze in streaming e l’evaporazione dell’arte nelle dinamiche consumistiche, pongono grandi sfide al circuito teatrale, caratterizzato da crisi diffuse e da preoccupanti riduzioni degli spazi di confronto democratico.
Ci si sente molto soli sia in quanto spettatori che protagonisti!
D’altro canto è un fatto ormai documentato che anche davanti a enormi tragedie la nostra reazione emotiva sembra essersi attenuata, quasi fossimo assuefatti ai grandi numeri, abituati ad una contabilità di morte e tragedie nelle quali i numeri prendono il posto dei nomi e dei volti, cancellandoli e rendendo più difficile empatizzare con loro. La mancanza della percezione emotiva è determinata dalla distanza, il numero e la non identificabilità le rende meno presenti alla nostra intuizione morale e, quindi, meno importanti e capaci di suscitare una vera reazione. Il circuito appare ingolfato da autorappresentazioni che non riconducono ad alcun orizzonte rituale.
Qualcosa non sta funzionando, ma questo già lo sapevamo!
Ma al di là della questione dei social, la verità è che qualunque altra forma di fruizione culturale che non sia il teatro, avviene in isolamento. La pura e semplice presenza di una persona in carne ed ossa è sempre più forte della sua immagine. Le persone che guardano qualcosa in un gruppo, en masse, reagiscono diversamente e forse più profondamente di come solitamente fanno quando sono da sole nel salotto di casa; l’effetto si depotenzia. Nondimeno il teatro non si esaurisce in questa ristretta articolazione. La matrice teatrale è, nell’uomo, qualcosa di più originario di molte delle sue manifestazioni sociali, di molti suoi comportamenti. Si tratta di privilegiare un ritorno alle origini, insistendo sui dati dell’incontro diretto fra i due poli della comunicazione teatrale (attore e spettatore), uscendo dalla pratica del teatro come oggetto finito in cui è valorizzato unicamente il momento della creazione individualistica. Le tragedie classiche tanto quanto i fatti di cronaca sono composti della stessa carne umana e possono tutti almeno aiutarci a comprenderci meglio, se non migliorarci.
È quello in cui crede lo scrittore francese Laurent Mauvignier, che nel 2011 scrive il breve racconto “Ce que j’appelle oubli” che si muove su questo confine, ovvero un fatto di cronaca che diventa una storia universale. È la storia della morte atroce e banale di un uomo che nessuno conosce ed è da ricordare, con un gesto artistico semplice, additando l’indifferenza con cui il nostro agire contemporaneo esclude alcuni, spingendoli ai margini. Il titolo, che tradotto in italiano è “Ciò che chiamo oblio” designa questo luogo dell’indifferenza sociale e collettiva e le sue responsabilità. Il personaggio sarebbe potuto uscire dall’oblio, rompendo il suo isolamento, ma non gli è stato possibile, è stato catturato dalla violenza del nostro mondo.
Ispirato ad un fatto di cronaca accaduto a Lione nel 2009, questo testo è racchiuso in un’unica frase di circa sessanta pagine, senza inizio né fine. È la storia di un giovane picchiato a morte da quattro vigilantes, nel retro di un supermercato, per aver bevuto una lattina di birra senza averla pagata, o senza aver avuto il tempo di farlo.
La scrittura ripercorre l’esistenza della vittima, la moltiplicazione dei punti di vista disegna pian piano un ritratto, che non è propriamente quello dell’uomo ammazzato, ma un ritratto collettivo, il nostro, quello di una società che autorizza i delitti e poi li dimentica. Il libro inizia con una frase in cammino, è come mettere il piede su un tapis roulant e scendere dopo poco meno di un’ora. Tutto è terribilmente banale, deplorevole, senza valore. I personaggi sono molto ordinari. Non c’è nulla nella violenza stessa che non sia terribilmente appropriato, ma ogni elemento di questa notizia è neutro, il ragazzo che beve la lattina, le guardie giurate che lo fermano, il luogo, il momento, ecc., l’ingratitudine generalizzata, eppure la congiunzione di questi elementi, la loro dinamica – niente, assolutamente niente predispone all’omicidio – conduce e scatena una barbarie omicida.
Laurent Mauvignier non racconta, non spiega, non istruisce, scrive una singola frase che dura 58 pagine. Comincia senza maiuscola, aprendosi con la congiunzione “e”: “e quello che ha detto il Pubblico Ministero è che un uomo non deve morire per così poco”, ed eccoci qui: uno sterminio individuale di nascosto, senza urla o testimoni, una vita gettata nel fango. Lo scrittore francese esplora questa tragedia nello sforzo di scrivere il più vicino possibile all’insensato, all’insignificante disastro. Lo fa scegliendo una forma assolutamente inconsueta, che tuttavia risulta scorrevolissima, sebbene non ci siano punti e pause.
Questo progetto letterario così radicale e minimale da Oltralpe sbarca in Italia in forma di monologo – dal 18 al 28 gennaio al Teatro San Ferdinando di Napoli.
In segno di resistenza, ciò che Mauvignier chiama oblio diventa – con la regia di Roberto Andò e la recitazione di Vincenzo Pirrotta – memoria. Accade cioè quello che dicevamo poc’anzi: la teatralità costituisce la possibilità di rappresentazione della parola segregata (libro), del muto grido di domanda che invoca un riconoscimento.
D’altra parte “rappresentare” significa ri-ad-presentare, vale a dire portare a presenza qualcosa sulla base di un dato che viene in tal modo rivelato. Pontremoli scrive che “la rappresentazione è un luogo in cui si fa presente l’assenza dell’essere ed assente la sua presenza”(4). L’orizzonte illusorio può concretizzarsi allora in una forma partecipata, autorevole e responsabile del teatro nella sua specificità, laddove un’esigenza forte di più diffusa comunicazione invoca una forma artistica più stabile, maggiormente individuata sul piano estetico. Questo testo viene messo in scena per la prima volta nel 2012 al Teatro della Comédie-Française, diviene poi spettacolo anche in Italia solo nel 2019.
All’ingresso in sala lo spettatore si trova coinvolto in uno spazio nuovo: niente palcoscenico, al centro un morto confezionato in un telo, deposto su un banco di marmo e una sedia nera sulla quale siede Vincenzo Pirrotta in veste di Narratore, che – raccolto su se stesso pazientemente – attende il pubblico che si accomoda tutto intorno, a tu per tu con lui.
Luci funeree, lui vestito di nero, giacca e camicia, col suo possente fisico seduto e con lo sguardo basso, inizia con voce sommessa (ma servita tanto da microfono appiccicato sul volto, quasi invisibile), la sua narrazione: “ e il Procuratore ha detto che un uomo non può morire per così poco…”
Si lascia fluire in un suono Pirrotta, in un ritmo, in una macchina per produrre immagini e sensazioni, idee e storie, personaggi e azioni. Non c’è respiro, così come per la lettura, il narratore attraversa il discorso interiore, il pensiero dei personaggi e ciò che dicono, senza soluzione di continuità.
Sappiamo tutti che a teatro le convenzioni sceniche e il patto comunicativo si basano sulla consapevolezza del come se, e per questa ragione la credibilità non è un dato scontato, ma deve essere conquistata, esattamente come all’interno della comunicazione interpersonale. Ebbene l’attore palermitano conquista la piena credibilità dopo appena una manciata di minuti, quando il tono della sua voce è già più alto e lo spazio della rappresentazione con il palcoscenico esposto e le luci molto intense costruiscono uno spazio comune tra l’attore e gli spettatori. La narrazione è accompagnata da una descrizione precisa che tocca i dettagli, dall’ubicazione del supermercato al modo in cui le guardie giurate si avvicinano e aggrediscono la vittima, fino alla sua mancata reazione all’assurdità della realtà. Non siamo solo noi spettatori i veri destinatari del suo discorso, insieme a noi, davanti a noi c’è il fratello della vittima, a lui sono rivolte le parole che si sforzano di ricostruire fin nei minimi particolari, nelle percezioni, nei sentimenti che durano un istante, l’eterno momento dell’uccisione dell’uomo. La voce è intrisa di dolore, ma non ne è deformata, è rivolta al fratello della vittima per raccontare, senza nessun pathos, nessun lamento, nessun piagnucolìo, solo una straordinaria intensità espressiva. Tutti i gesti e i comportamenti dell’attore in scena sfuggono alle strette maglie del teatro come organismo chiuso e si manifestano come esperienza di comunicazione dall’evidente tensione teatrale, laddove attore e spettatore sono in presenza l’uno dell’altro, uno in relazione all’altro in uno spazio raccolto. Si assiste a un rito!
Come un coro tragico, il narratore ci inchioda alla testimonianza intima e muta di una verità che non è mai pronunciata. Nessun nome, nessun luogo, nessuna data. Fino a pochi minuti prima della fine ogni identificazione è impossibile. Poi, il rito laico della rappresentazione si rivela in un momento di ricostruzione dell’identità e dell’emozione collettiva e lo spazio teatrale si trasforma così in luogo della memoria. L’attore tira fuori dal feretro posto al centro della sala una fotografia e la mostra al pubblico inerme, si tratta del volto tumefatto di Stefano Cucchi. È il regista Roberto Andò in questo caso che sente il bisogno di radicare il fatto di cronaca narrato da Mauvignier nel suo speciale romanzo, a un altro fatto di cronaca. Risulta una scelta pertinente e non forzata, coerente con la ricca varietà di azioni che il regista cuce addosso a Pirrotta e che culmina negli accorati e timidi (davvero pochissimi) abbracci col pubblico. A dirla tutta non è da escludere che – data la potenza della rappresentazione – gli spettatori abbiano sentitamente ricordato e visto nel feretro al centro della sala il corpo di Federico, Riccardo, Aldo, Giuseppe, Michele, Dino, Riccardo…
(1)L. Mauvignier, Storia di un oblio, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 56.
(2)Si fa riferimento allo spettacolo andato in scena al San Ferdinando dal 18 al 28 gennaio, “Storia di un oblio”, monologo tratto dall’omonimo racconto di Laurent Mauvignier. Interpretato da Vincenzo Pirrotta e diretto da Roberto Andò.
(3) Per approfondimenti si segnala il volume E. Campili e D. Furino, La social writing. Il racconto ai tempi dei social: come trasformare i social network in una nuova drammaturgia, Independently published, 2022.
(4) A. Pontremoli, Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale, UTET, Torino, 2012, p.11.