We love Enzo, in viaggio con Moscato agli estremi confini della vita e dell’arte

di Antonio GRIECO

Moscato, l’ultimo grande poeta del nostro teatro, ci ha lasciato in silenzio, con quella umiltà e leggerezza che da  sempre lo distingueva, proprio quando alla Sala Assoli andava in scena We love Enzo, la  seconda edizione della rassegna (dal 12 gennaio al 4 febbraio) dedicata alla memoria collettiva dell’ Olocausto e alla sua lingua scenica (produzione Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo), con la partecipazione di attrici e attori come Isa Danieli, Enza Di Blasio, Cristina Donadio, Vincenza Modica, Imma Villa, Mariachiara Falcone, Valeria Frallicciardi, Francesca Morgante, Giuseppe Affinito, che sin dall’inizio del suo viaggio nella drammaturgia contemporanea sono stati originali interpreti delle sue opere. La rassegna, seguita con grande partecipazione da un pubblico numeroso e commosso, ha presentato quattro momenti cardini della sua poetica, Tempo che fu di Soscia, Co’Stell’Azioni, Trianon, Kinder – Traum Seminar, che hanno efficacemente riannodato i temi fondanti della sua straordinaria esperienza teatrale e artistica: a cominciare, guardando a Lee Masters e alla sua visionaria Antologia di Spoon River, da quel misterioso confine che separa e al tempo stesso unisce il mondo dei vivi a quello dei morti; alla inaudita violenza della Storia sugli indifesi e i diversi; all’invenzione di una lingua napoletana che guarda alla tradizione tradendola ma senza mai negarla, secondo un processo dinamico della scrittura drammaturgica che lui amava definire “Tradinvenzione”. Altri riferimenti particolarmente indicativi della sua ricerca autoriale e attorica, come ha egli stesso in più occasioni sottolineato, sono stati la poesia dell’ “irregolare” Jean Cocteau – che, tra l’altro, dopo l’orrore e le macerie della prima guerra mondiale col suo saggio Richiamo all’ordine (1926) invitò i suoi amici avanguardisti a ripensare l’arte ricostruendo un nuovo, vitale rapporto con la tradizione – e Raffaele Viviani che nelle sue opere metteva in scena il vissuto popolare di Napoli senza infingimenti retorici. Ad elevare questi inediti procedimenti contaminatori – tra filosofia, arte, poesia, letteratura, vita, musica (Moscato è stato, tra l’altro, anche un eccellente e apprezzato cantante di brani musicali napoletani) – ad assoluta Poesia della scena c’è poi la sua meravigliosa lingua, la lingua come corpo “pensante” di una scrittura teatrale che ci aiuta a riconoscere quelle forze invisibili, misteriose e vitali, che si celano oltre lo schermo mimetico del mondo reale. 

Tempo che fu di Soscia, undici suoi racconti sulle Quattro Giornate, è stato il primo spettacolo (12 – 14 gennaio) della rassegna a lui dedicata cui abbiamo assistito. Isa Danieli ne ha letti, riattivandoli drammaturgicamente con grande sensibilità attoriale, due: Mata Hàri e Bagatelle per un altro malintesoMata Hàri, il primo, è il grido insistito, feroce della folla, intorno a «una brace/pupata gigantesca divorata ormai quasi del tutto dalle lingue delle fiamme», cui un bambino di sette anni con la sua cagna Nina assiste attonito, perché ai suoi occhi innocenti quella creatura  trasformata – per dirla col Gilles Deleuze del saggio su Francis Bacon (La logica della sensazione, 1981) cui sembra guardare Moscato  – in “carne macellata” dalla gente urlante del suo quartiere perché sospettata di essere una spia, è solo un essere umano, un suo e nostro fratello. E non rispettarne la dignità, non averne pietas, sembra ricordarci l’autore, vuol solo dire che la guerra ha mutato a tal punto le nostre coscienze da spingerci tutti verso il baratro della “banalità del male”. A sottolineare, poi, tutto il suo sdegno per questa ignobile barbarie, egli conclude la sua favolistica narrazione con le parole del piccolo Fernando di totale insensibilità verso quella estrema sofferenza umana: «He visto, Nicò chi hanno acciso lla ncoppa? Era na zoccola, Nicò! Era na spia! S’ a faceva cu e Tedesche. S’ a ntennev cu o Nemico».  Parole di odio cui inorridisce anche la sua fedele cagna Nina che «quasi a sfotterlo gli latrò contro». Bagattelle per un altro malinteso, l’altra storia interpretata sempre da Isa Danieli, in fondo evoca lo stesso raccapricciante orrore umano; qui, infatti, quel soldatino con i capelli rapati quasi a zero – per i suoi vicini di casa solo uno spregevole collaborazionista dei tedeschi – che, terrorizzato, «piangeva forte forte ma senza far rumore, prima di essere ammazzato» da un popolo inferocito, non c’entrava nulla con i tradimenti e la furia assassina dei belligeranti: perché «Chelle nun è nu surdate! È na cumpagna mia! È una che fatica sui casini! Nun sparate! Nun sparate! Vi state sbagliando! Che facite!». Ma tutto fu inutile perché ancora una volta in quel microcosmo indiavolato alla periferia del mondo prevalse l’ottusa violenza omicida: e col cieco desiderio di cancellare l’Altro, il diverso, dalle nostre comunità, si dissolse anche la speranza di un altro possibile orizzonte umano. Al termine dei due racconti tratti dal “piccolo affresco” moscatiano, la serata ci ha regalato il film (con la regia di Giuseppe Bertolucci) di quel capolavoro che è Luparella, un testo degli anni Ottanta interpretato dallo stesso Moscato anche nel 2018 – nell’ambito della rassegna “Teatro in Cappella”, a cura di Antonia Lezza, nel Chiostro di San Lorenzo Maggiore. E dobbiamo subito dire, rivedendo nella Sala Assoli la magistrale interpretazione di Isa Danieli, che questo straordinario monologo non solo non ha perso nulla della sua originaria forza espressiva, ma riandando con la mente al drammatico scenario dei nostri giorni –  dove un po’ dovunque sembrano tornare i fantasmi del nostro recente passato – appare di indubbia, sconvolgente attualità.  Infatti, Il racconto del femminiello Nanà della tremenda fine della sua amica Luparella, una prostituta che vive e lavora in un casino di Via Toledo, si erge qui, ancora una volta, a simbolo universale dell’ininterrotta, arcaica violenza dell’uomo sul corpo delle donne. Ma forse, con l’inumano gesto di quel soldato tedesco, che verrà ucciso da Nanà per aver violentato con un atto sacrilego Luparella già morta, sembra che Moscato, in fondo, abbia anche inteso alludere, probabilmente sulle tracce della psicologia junghiana, a qualcosa di più profondo che riguarda noi stessi, il primordiale e cieco spirito animale dell’uomo su l’Altro da sé. 
In Co’Stell’Azioni (18-21 gennaio), il secondo movimento della rassegna, la poetica degli sconfinamenti – linguistici, poetici, culturali, filosofici, – a tratti, sembra quasi assumere una connotazione metateatrale, con la scelta di ispirarsi, oltre al suo amato Leopardi, liberamente all’opera poetica di Jean Cocteau: a quella sua linea d’ombra tra i vivi e i morti che ci aiuta a immaginare un altrove tra le trame della nostra asfittica quotidianità. Scrive, infatti, Moscato nelle note di regia riportate nel programma di sala, che il suo testo, in un idioma italo-napoletano «narra o denarra del difficile confine tra i vivi e i morti, parola e sua negazione, libertà e prigionia, come pure della necessità di scavalcarlo». E sempre meditando sui morti cancellati dalla Storia, egli riprende qui un altro suo testo, Sull’ordine e disordine dell’ex macello pubblico, che ricorda i martiri della Repubblica napoletana del 1799: uomini e donne come la Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo e tanti altri, che col loro sacrificio continuano a parlarci della necessità di un pensiero utopico come indispensabile strumento per decolonizzare il nostro sguardo sul mondo. Questo suo insistito richiamo alla memoria “sepolta”, ci induce, in fondo, a ritenere Co’ Stell’Azioni tra i testi più “politici” di Moscato, proprio perché, attraverso lo sguardo assente dei dimenticati, sembra che egli in realtà intenda mantener viva la memoria di chi – da “clandestino del suo tempo” – si è assunto il compito di svelare tutto l’inganno e la brutalità del potere costituito. All’intensità di questo processo creativo autoriflessivo della scrittura teatrale, in una scena scarna, lontana da qualsiasi tentazione spettacolare, hanno dato un prezioso contributo attoriale tre bravissime attrici “moscatiane”, Enza Di Blasio, Cristina Donadio e Vincenza Modica, con una interpretazione fatta di misuratissimi gesti, di sguardi intensi, di un comune sentire, che ha commosso gli spettatori, molti dei quali solo qualche giorno prima avevano accompagnato il nostro grande maestro nel suo ultimo viaggio. 

 A Co’Stell’Azioni ha fatto seguito Trianon (25 – 28 gennaio), un testo andato in scena per la prima volta nel 1995, che racconta la giornata particolare in questura di quattro prostitute (tre Lulù e una Nanà). Le Lulù – precisò Moscato in una nota di regia – sono contrassegnate, per differenziarle, solo da procedure aritmetiche: Lulù 1, Lulù 2, Lulù 3. Anche qui, il tema di fondo del foucaultiano pensiero moscatiano è la storica violenza di genere, fisica, sessuale e morale, che da sempre ha devastato la vita di tutti gli esclusi della Storia. Così, quella nottata passata nel chiuso di una buia prigione si trasforma in un’occasione per le giovani donne per raccontare – come da un palco del Trianon, e ognuna con “velenosa ironia” –  le trame più intime della propria misera quotidianità: una esistenza ancora una volta sottomessa alle brame di un potere dispotico che da sempre le ha schiavizzate e ingannate: come quando il “Viceré spagnuolo” chiese loro di corrompere (ubriacandoli e sfiancandoli col sesso)  i marinai di una nave nemica, con la promessa che al ritorno avrebbero avuto ‘oTrianonpigliate na paranze  e, sott’e nave de’ nemici, de chello ca vuie site, facite bbona canna e bona lenza, aroppe ve dammo ‘o Trianon»):«Trianòn, Trianòn, che d’era stu Trianòn», si chiedono dubbiose le quattro donne, per concludere infine con amarezza: «Carcere  oscuro, galera, cancelle, priggione, catenaccio, licchetto, chest’era ‘o Trianòn!». Insomma, Moscato, ancora – e  con la medesima, lacaniana radicalità del “Pensiero della differenza femminile” –  punta qui il dito sul dominio assoluto degli uomini sui corpi delle donne;  e, però nel vissuto  di quelle prostitute napoletane (che non si vendono mai per soldi, perché «a lloro nun ce ne fotte niente de denare, de’ solde, no… lloro so’ nammurate sule de’ pparole, ‘e chilli sciusce d’aria senza cunsistenza ca so’ e pparole, meglio ancora si sonano “furastiere”»), egli in realtà sembra voglia stimolarci a ripensare le nostre comunità proprio da quella alterità, tutta al femminile, che è, insieme, un atto di rivendicazione della propria, intima soggettività e un gesto di rifiuto, di resistenza ad una sempre più inarrestabile mercificazione dell’Essere negli attuali processi di secolarizzazione globale. Straordinaria l’interpretazione di Imma Villa, storica attrice moscatiana, coadiuvata dalle bravissime, giovani attrici, Mariachiara Falcone, Valeria Fralliciardi e Francesca Morganti, formatesi nel laboratorio del Teatro Elicantropo, storico spazio alternativo del nostro teatro, impegnato da sempre nel lavoro sociale e nella sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi in un territorio tra i più difficili e vivi della nostra città. L’ultimo lavoro, il quarto, di questo splendido omaggio a Moscato è stato Kinder-Traum Seminar (Seminario sui Sogni dei bambini) (1-4 febbraio), una raccolta di voci differenti – tra le altre, quelle di Janusz Korczak, Tadeusz Kantor, Etty Hillesum, Primo Levi, Marina Cvetaeva, Edith Stein – sullo sterminio nazista. La scena scarna di Mimmo Paladino è drammaticamente allusiva. Ci sono poche luci; in fondo, sulla grande parete del palco di fronte a noi, vediamo scorrere le immagini di croci e di bambini innocenti che per primi hanno pagato il prezzo di quella inaudita violenza omicida. Delle corde, come righe tracciate nel vuoto, si intersecano tra loro quasi a formare una ragnatela che separa lo spazio scenico dalla platea. Questa fantasmatica, kantoriana leggerezza contrasta con la lugubre atmosfera del campo, dove tutto, ogni gesto, ogni parola, sembra essere già accaduto e viene semplicemente evocato dalle parole degli internati – Vincenza Modica, Giuseppe Affinito e la piccola Isabella Mosca Lamounier – agli ordini (in tedesco) di una spietata Kapò (Cristina Donadio). La bambina non si avvede di ciò che le sta per succedere e continua spensierata a correre, e ai lati della scena a leggere, scrivere, sognare. Ma è proprio questo, il sogno, che i nazisti non sopportano; e, così, continuano a dare ordini bestiali e perentori, come quello che obbliga agli ebrei che desiderano impiccarsi di scrivere il proprio nome su di un pezzo di carta da tenere in bocca. A ciò si aggiunga che in questo inferno in terra non bisognava mai smettere di cantare (“sei ore con le mani alzate ma bisognava cantare”), fingere di essere vivi, quando in realtà si è candidati nel giro di poche ore alla fine più atroce.  Dunque, tutto è già scritto, scritto col sangue, col dolore muto degli innocenti. E, allora, – mentre sembrava che “la notte si muovesse” – tornano tra quelle ombre ai confini del tempo umano, le parole del Vangelo di Marco: “Padre, padre mio, perché ci hai abbandonato”. Moscato, riandando a quell’immane tragedia, evita qualsiasi tentazione spettacolare riducendo tutto al minimo. A segni: a poche evocative parole e visioni che parlano alla parte più segreta della nostra anima. Così, la scena della bambina che sparge in scena petali di rose prima di accasciarsi morente al suolo, è pura poesia; e, oggi, fa drammaticamente pensare ai tanti bambini vittime innocenti, dopo l’orrendo massacro di Hamas, a Gaza della vendetta israeliana. Alla fine, ciò che resta di questi sorprendenti spettri moscatiani, è una scrittura e riscrittura teatrale (“io sono scrittura”, affermò anni fa Moscato in una intervista), in cerca di quella verità degli ultimi che sfugge alla Storia. Bravissimi tutti gli interpreti di quest’ultimo spettacolo dedicato al nostro grande autore: da Cristina Donadio, che ha tratteggiato con grande vigore espressivo (e in tedesco) tutta la spietatezza della Kapò, a Vincenza Modica, che, con una essenzialità attoriale molto “neiwilleriana”, ci ha mostrato tutte  le infinite atrocità del lager, a Giuseppe Affinito che si sta sempre più affermando come un  sicuro interprete dell’immaginario moscatiano; alla piccola Isabella Mosca Lamaunier, che ha attraversato la scena con sorprendente naturalezza, suscitando grande emozione nel pubblico in sala. Leggera, molto suggestiva, la scena di Paladino; luci e proiezioni di Simone Picardi, Fabio Calvetti e Sebastiano Cautiero; organizzazione Claudio Affinito. Speriamo che questa nostra città (al funerale notammo increduli la quasi totale assenza istituzionale) non dimentichi questo nostro immenso autore attore, che ha sempre costruito il suo teatro, il suo immaginario simbolico, incrociando lo sguardo con i tanti diseredati che continuano, tra laceranti contraddizioni, a vivere, resistere e sognare nelle strade di Napoli come in ogni periferia del mondo.