“Play Viviani” – Dentro la voce di Napoli
di Martina GIUSTI
Dal buio della scena emerge un canto
timbro basso, ruvido,
sembra giungere da un tempo lontano.
Si può dire che una voce sia in bianco e nero?
“Play Viviani” è uno spettacolo che regala momenti continui di tensione e stupore.
È un concerto, un varietà, un’immersione totale in un mondo che non esiste più, quello del teatro di Raffaele Viviani. Eppure vibra potentissimo grazie al corpo e alla voce di un interprete eccezionale: Tonino Taiuti, un uomo di talento, uno che il teatro “lo sa”, e della sua sapienza fa tesoro. Mai avaro, anzi con grande generosità, dona al pubblico una performance che spazia dalla tragedia all’opera dei pupi, toccando picchi di comicità assoluta, verace, in particolare con lo stralcio tratto da “La festa di Piedigrotta”. (1)
L’impianto circolare della messinscena è segnato da due momenti, all’inizio e alla fine, durante i quali Taiuti imbraccia la sua chitarra elettrica e si abbandona ai suoni graffianti che richiamano la musica noise/ambient. Questa incursione della contemporaneità produce uno strano effetto di cortocircuito, come se attraverso gli strumenti di oggi, con i suoni astratti del nostro strano tempo, Taiuti aprisse un varco per immergersi – trascinando anche noi con lui – in quel passato prossimo, che in un lampo è diventato remoto, della Napoli del primo Novecento.
Ecco che in un’ora veniamo catapultati nei bassi, diventando testimoni del più brutale dramma della gelosia, poi in un batter di ciglio, sgraniamo gli occhi davanti ai fuochi d’artificio di una luminosa processione pagana e all’improvviso ci ritroviamo a piangere della miseria e della crudeltà raccontata da due fantocci di legno e stoffa – si tratta in questo caso della scena finale del “Circo equestre Sgueglia”, che Taiuti recita con i suoi pupazzi.
Il passato è presente e si può ripetere ancora e ancora. È un gioco, è una canzone.
“Play Viviani” è un carosello di cui sono curati al millimetro i dettagli, dai costumi alla scena, impreziosito dal raffinato disegno luci di Carmine Pierri. La lingua del testo è il dialetto napoletano, eppure anche per un orecchio “straniero” come quello di chi scrive in questo momento, è stato possibile apprezzare le sfumature più tenui e le sferzate crude che Viviani condensa nelle sue opere. Mi ripeterò, ma in questo il merito è senz’altro di Taiuti, del suo farsi musica. Devo ammettere, anzi, che l’effetto più sorprendente è stato provare una sorta di malinconia per qualcosa di assolutamente sconosciuto, un desiderio di vivere in un altro tempo, di essere qualcosa che non sono. Per un’ora avrei voluto parlare anche io quella lingua, possederla. Non credo sia necessario sottolineare la portata, anche politica, di tutto ciò, soprattutto nel nostro presente, soprattutto qui in Italia. Il Teatro è capace anche di questo e “Play Viviani” ne è una prova. Sono convinta che uno spettacolo simile meriterebbe l’attenzione di un pubblico variegato, anche poco avvezzo al dialetto, perché la forza delle opere di Viviani è assolutamente capace di scavalcare i confini regionali, ancor di più se, come in questo caso, è un grande interprete a farsene carico e a recuperarne l’eredità.
1: Grazie all’immenso lavoro di digitalizzazione dei sei volumi del Teatro di Viviani di difficile reperibilità, condotto in maniera sinergica dall’Università degli Studi di Salerno (laboratori di Scienze del Medioevo Nicola Cilento e ArtiLab dell’Università) e dalla Fondazione Campania dei Festival nell’ambito del progetto Cantieri Viviani, l’opera completa di Raffaele Viviani è consultabile a questo sito: https://www.liberabit.unisa.it/cris/fonds/fonds09310
Recensione di Martina Giusti, vincitrice del bando per l’assegnazione della borsa di studio TEATRO A NAPOLI,
https://www.centrostuditeatro.it/2024/01/bando-di-selezione-borsa-di-studio-teatro-a-napoli/