Tra la memoria e il presente c’è un fiore
di Martina GIUSTI
Come accade spesso nella mia quotidianità, il 21 febbraio sono andata a teatro.
Non è una cosa insolita, anzi, il luogo mi è familiare e la pratica è una consuetudine: aspetto che si faccia l’ora, dentro o fuori il foyer, leggo il foglio di sala, scruto la locandina. Poi prendo posto in platea, mi faccio avvolgere dal buio e ascolto il brusio farsi silenzio. Insomma partecipo a una piccola ritualità, squisitamente laica, umana ma allo stesso tempo misteriosa e straordinaria. Accade infatti che vite che non sono la mia – e che non sono affatto, fuori da quella scatola che è il palcoscenico – prendano forma e voce, mi impongano la loro effimera presenza, mi trascinino fra le pieghe della loro esistenza e, spesso, mi commuovano.
Accade che tempi lontani si facciano improvvisamente presenti e che, per esempio, mi ritrovi su un treno diretto a Vittorio Veneto per difendere i confini nazionali dal nemico.
Accade che una pagina scritta diventi racconto vivo di un’inquietudine, di un turbamento, di uno struggimento dovuto a una separazione inevitabile. Accade che il contesto e il momento storico si facciano talmente grandi e importanti da invadere ogni cosa, ogni rigo, ogni sospiro e diventare i veri protagonisti delle storie di cui sono testimone.
Accade che un carteggio avvenuto un secolo fa diventi uno spettacolo e che la vita rimasta impressa sulla carta si animi e riecheggi in tutto il suo tumulto, nella determinazione a non scomparire, a non morire una seconda volta a causa dell’oblio ma a eternarsi nel ricordo e nella memoria, grazie al teatro.
Il 21 febbraio sono andata a vedere alla Sala Assoli di Napoli Il fiore che ti mando l’ho baciato e così ho appreso la storia di Stamura Segarioli e Francesco Fusco, una maestra e un ufficiale medico, che si conoscono nei primi anni dieci del secolo scorso e si innamorano. La loro vicenda amorosa è raccontata proprio attraverso le lettere, gelosamente conservate dalla nipote Rosa Fusco, adattate a drammaturgia scenica da una sinergia efficace tra Antonia Lezza, che ne ebbe l’intuizione già nel 2014, la drammaturga Elvira Buonocore e l’attrice Anna Rita Vitolo. Di questo carteggio rimanevano solo le lettere scritte da Francesco, per questo, nel lavoro di composizione, Buonocore ha dovuto, letteralmente, dare voce alla personalità di Stamura, intuirla dalle risposte di lui e costruirne un’immagine a partire da quanto era racchiuso in quelle carte, da quello che vedevano i suoi occhi.
Antonio Grimaldi, che firma la regia, sceglie un impianto semplice per la messinscena, ma funzionale a far emergere il talento della protagonista. La accompagna con un repertorio musicale evocativo, ma mai invadente, e sceglie di fare da contrappunto vocale all’attrice ricorrendo a delle registrazioni fuori campo in cui interpreta Francesco.
Stamura, interpretata magnificamente da Vitolo, è infatti sola in scena; è vestita di bianco, come una sposa, ed è circondata da fogli sparsi per terra. Sono questi la sua compagnia e la sua storia, il tramite che ci permette di conoscere la vicenda e le sue fasi: l’innamoramento, la passione, la distanza, i dubbi sulla fedeltà, fino al richiamo alle armi dell’amato. Anna Rita Vitolo ci fa vedere ogni cosa, ogni turbamento, ogni esitazione, ogni sussulto di gioia e di disperazione; ha un talento che si esprime con ogni parte del suo corpo, con una grazia nei movimenti e una tensione nervosa, muscolare, che in più momenti mi ha fatto pensare a Pina Bausch in quel capolavoro che è Café Müller.
L’attrice dà calore e profondità a un lirismo sorprendente custodito dalle lettere, una prosa letteraria elegante, antica ma sempre concreta, tesa a far arrivare chiaro il messaggio d’amore, la mancanza, il desiderio. Ancor di più quando la Guerra irrompe nelle loro vicende, cambiandone i progetti, imponendo tempi e volontà nonostante tutto, nonostante la nuova vita che Stamura scopre di avere dentro di sé. Nel maggio 1915 infatti, poco dopo aver saputo di diventare padre, Francesco è chiamato al confine, insieme a migliaia di uomini che come lui sono costretti a servire un Paese che ha deciso di schierarsi e prendere parte a una tragedia umana senza precedenti. Le lettere scritte dal fronte rivelano una tenacia e una forza d’animo indomite, un bisogno di risposta e di contatto umano costante, un desiderio vibrante di poter tornare ad abbracciare la felicità, che ha il nome di Stamura.
Il fiore che ti mando l’ho baciato racconta una delle tante storie che fanno parte del nostro passato, è “solo” uno dei tanti amori spezzati dalla guerra, ma è fondamentale e unico, perché è sopravvissuto grazie alle sue stesse parole, come ogni storia che si fa testimone e megafono di un racconto più ampio, comune, condiviso e purtroppo, atrocemente attuale. L’operazione sottesa all’intero progetto rivela intenti ammirevoli ed è prova di una passione autentica per la materia letteraria; si percepisce la delicatezza con cui le autrici si sono approcciate a un materiale intimo e privato, ma al tempo stesso si scorge il desiderio di diffondere la profondità e la grandezza del messaggio, che dal personale diventa pubblico e dal passato parla drammaticamente al nostro presente.
Recensione di Martina Giusti, vincitrice del bando per l’assegnazione della borsa di studio TEATRO A NAPOLI,
https://www.centrostuditeatro.it/2024/01/bando-di-selezione-borsa-di-studio-teatro-a-napoli/