LA PASSIONE DI C

A dicembre 2023 ho condotto un workshop presso la sede del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo presieduto da Antonia Lezza.
Il workshop s’intitolava In guerra col mondo è la pazzia, ed è stato un percorso molto interessante che mi ha dato la possibilità di conoscere tanti artisti, alcuni dei quali ancora davvero in erba, allievi della scuola di recitazione del Teatro Elicantropo di Napoli; altri già formati, con un’identità artistica determinata.
E alcuni peraltro fuori sede, venuti apposta per seguire il lavoro che proponevo.
Fra questi, Lorenzo Praticò, calabrese, che ha scritto un testo curioso, già abbastanza pronto per la scena. 
Un testo delicato e drammatico, ma anche profondo, che già alla lettura sollecita immagini concrete, dalle tinte scure, con un forte afflato critico.
Un testo denso, insomma, che abbiamo deciso di pubblicare.

Rosario Palazzolo

LA PASSIONE DI C

di Lorenzo PRATICO’

Un sacerdote con l’abito talare in ginocchio ad un confessionale. Durante la confessione, preso dalla foga, a volte si alzerà, altre, per motivi che non conosciamo, si siederà sull’inginocchiatoio.

Perdonatemi padre perché ho peccato. So che non è questo il giorno del nostro incontro e che sono settimane che non mi faccio vivo, ma certe notti sono talari troppo strette, non fanno respirare e impediscono i movimenti.  È come in quella canzone di Arisa, non c’è pace la notte in una testa che cerca di capire perché… Perché? 
Perché di nuovo quei sogni e quei desideri. Che non dormi la notte per non alimentarli, non viverli di nuovo addosso e dentro, tutte le notti… e di giorno anche dietro le palpebre, che chiuderle e perdersi è un attimo. E i mostri del buio stanno là, in attesa, affamati… sempre stato bravo a dar da mangiare ai mostri, io. Allevatore e domatore per non essere preda. Già da piccolo e pure allora senza dormire, che nel buio gridavano più forte la loro fame. Sempre stato bravo a non dormire…
Per quanto tempo si può non dormire padre? Per non fare un sogno. Quel sogno. Di quel lui che mi carezza la faccia con mano ferma e gentile. Lui desiderato e proibito. Come il frutto dell’albero. Che è conoscenza e punizione. Che fa vedere gli esseri umani per quello che sono. Nudi. Nudi nel sogno anche. E vicini da sentire l’odore e il calore anche, ma non quello umido di bestia ingrifata, ma di pompa calore che dà energia e conforto alla casa. È una casa quel corpo. E vicini da respirare il respiro dell’altro. Quasi da parlare le parole dell’altro. E due bocche che diventano una e… e svegliarti col cuore nel petto che cerca di uscire, io vado che qua si sta stretti, e guardarti attorno e… non riuscire a respirare, che manca il fiato. 
E me la ricordo la prima volta che mi è mancato il fiato. I miei genitori mi avevano dato finalmente il permesso di andare in vacanza da solo coi miei amici. Sette giorni in campeggio, tenda, fuoco di bivacco, chitarra. 
E una sera di cazzeggio… più vino delle precedenti e una grappa tirata fuori da chissà dove. Facciamo tutti il bagno nudi. Nudi, perché nudi? Che c’è, ce l’hai piccolo? Ma no. E il lago, nel buio, che non si vede niente nell’acqua. Ma guarda che luna. Piena. Piena la luna quella notte. E i corpi nell’acqua che ancora qualcosa nasconde, ma fuori alla luna… E il corpo, il suo corpo d’un bianco padre mio. Bianco di luna. Bianco di veste immacolata. Asciutto quel corpo bagnato. Quasi severo. E ciuffetti di peluria rossa sul petto e più in basso. E poi vicini, seduti per terra, spalla contro spalla, fianco contro fianco e quel contatto bagnato e caldo non mi faceva respirare.  Riccardo aveva i capelli rossi e gli occhi più verdi che abbia mai visto. Eravamo nella stessa tenda, i sacchi a pelo a toccarsi, quasi a confondersi… dormire uno vicino all’altro, anche se dormire non è la parola giusta. Io lo guardavo. Il leggero russare, quel parlottare mentre sognava e il suo profumo… sapeva di pane appena sfornato e gingomma alla menta e di converse sudate. 
Ma a diciassette anni, nel 1994, non glielo puoi dire al tuo migliore amico che sei innamorato di lui. Non glielo puoi dire che lo vorresti mangiare il profumo di quel pane, vorresti berla la menta di quella gingomma e per le scarpe non c’è problema, basta un po’ di talco, ma tanto ti piace lo stesso perché è il suo profumo. Non glielo puoi dire che lo metteresti in bottiglia. Eau de Richard. E te la immagini in francese la pubblicità che chissà perché in francese i profumi sembrano più buoni. Ci impazzivo dentro a quell’odore. E per due anni quel profumo è stato il mio cibo. Il pane. Quel corpo era pane, prima che il pane diventasse corpo nella mia vita padre. E mi perdoni padre, ma nessuna eucarestia ha mai avuto quel profumo, che forse pure quello ho cercato all’inizio… il ricordo di un ragazzo di diciassette anni. L’ho rivisto, sa padre, cinque anni fa… il mio Riccardo. Invecchiato, ingrassato, molti capelli bianchi tra i capelli ormai arancioni. E gli occhi spenti. Si accompagnava ad una moglie pallida e amara. Ci siamo abbracciati. Nessun profumo. Come stai, cosa fai, nessun profumo, prete chi l’avrebbe mai detto e io in banca, nessun profumo, e i ragazzi crescono e hai visto più gli altri, nessun profumo, io ogni tanto li sento e parole a seguire parole, e io zitto, respiravo, cercavo il profumo del pane e la menta, ma niente neppure una piccola traccia di converse. Allora ci vediamo aspetto una tua chiamata… La chiamata! L’ho ricevuta la chiamata. Inattesa e temuta. Il vescovo mi ha fatto convocare padre. La settimana scorsa. Una chiamata alla quale non ho potuto dire di no. Non posso spiegarle la paura, lo stomaco annodato, come quando ti chiamavano per un’interrogazione a sorpresa e pure se avevi studiato cominciavi a sudare, come quando ti fermano i carabinieri che anche se è tutto a posto, pensi che qualcosa non andrà bene, troveranno qualcosa che non va.  E nel mio caso non avevo studiato e niente, niente era a posto. Il segretario è stato perentorio, sua eccellenza ha urgenza di comunicare con lei. E mentre cammino verso la curia mille pensieri a trafiggermi la testa, un’invisibile corona di spine che non sono capace di levarmi di dosso. Qualcuno avrà capito, qualcuno avrà visto un gesto o avrà letto un dubbio nella mia voce o nei miei occhi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, era la frase preferita della signora Paolina. Abitava davanti a casa di mia nonna e quando eravamo piccoli ci metteva le ciliegie accoppiate appese alle orecchie e noi ridevamo guardandoci allo specchio. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, guardate, guardate come ce li avete belli gli occhi. C’avete la luce dentro diceva. E mi fermo a guardarmi gli occhi dentro lo specchietto di un auto, padre, e non c’è luce. Il vescovo mi guarderà negli occhi e vedrà il buio. I mostri e il buio vedrà. Questo penso. La paura e i mostri vedrà. I  desideri e i sogni che si nascondono negli occhi vedrà, che gli occhi sono lo specchio dell’anima e l’anima mia non magnifica più il Signore. Non lo sente più che le orecchie sono sigillate come quelle di chi è nato sordo e muto. Che ha cercarle anche in fondo alla gola non trovo parole che dicano il dubbio, che spieghino la sofferenza e il senso di colpa. Che mia nonna si sbagliava, non un santo, non un bravo bambino, ma un errore, una bugia, una… porcheria. E sono davanti al segretario sua eccellenza la riceve subito e non so cosa dire, e sono davanti alla porta avanti si accomodi e non so cosa dire, e sia lodato Gesù Cristo ho deciso di assegnarle la conduzione del corso per la preparazione dei fidanzati al matrimonio che avvieremo nella sua zona il mio segretario le darà tutto buona giornata sia lodato Gesù Cristo chiuda la porta quando esce e… non mi ha guardato negli occhi. Non mi ha guardato proprio, ha continuato a scrivere al computer senza alzare lo sguardo neanche per essere sicuro che fossi lì e io… non so cosa dire. Nessuno ha capito. Nessuno ha visto o sentito ma… ma un’altra spina si aggiunge alla corona che porto sulla testa. Dover affermare davanti a delle giovani coppie che solo due sono le strade per vivere l’amore, due le vocazioni, il sacerdozio o il matrimonio, ma come avrei potuto? Non io, non più, non ora. Sarebbe stata una menzogna sulle mie labbra ed è scritto in Proverbi 12:22 “Le labbra bugiarde sono un abominio per il Signore, ma quelli che agiscono con sincerità gli sono graditi”, ma la mia sincerità stessa è un  abominio davanti a lui. E mi preparo a dire parole che nella mia bocca sono  bugie per nascondere quello che sono davanti a Dio. Un abominio. Come il mostro nei fumetti di Hulk. Così orrendo da ferire lo sguardo, sporco da macchiare l’anima, che tutto il corpo lo vive come una malattia, come quando ero ragazzino… Matteo 18 versetti 8 e 9. “Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.” Ma se è il cuore a dare scandalo?  Chi potrebbe vivere senza il cuore?
Perdonatemi padre perché ho peccato. Sono un prodotto fallato, senza diritto di resa o di recessione. Un fatto male, ma… Ma può Dio Padre avermi fatto male? Sbagliato? Perché sbagliato? Cosa ci può essere di sbagliato in una cosa che mi piace e non ferisce nessuno? Come quando ero piccolo e arrivavo dal gelataio con le mie mille lire strette nella mano e la tenevo in alto la mano e chiedevo il gelato cioccolato e limone. Io questa porcheria non te la do. Perché porcheria? Sulla mia lingua stanno bene insieme e io non lo so perché, non me lo domando perché, ma insieme, dentro di me erano giusti quei gusti. Io questa porcheria non te la do. Che forse se una cosa giusta dentro di me è sbagliata fuori allora… allora sono sbagliato dentro io? Pure io sono una porcheria?  Che padre mio ad un certo punto per non farmi guardare più male dal gelataio ho cominciato a chiedere cioccolato e fragola, che ora sono di moda le cascate di cioccolato dove immergere la frutta, ma al gelataio neanche cioccolato e fragola andava bene. Questa porcheria io non te la do. E restavo con la mano inutilmente piena di quelle mille lire, inutilmente tesa. Bambino ferito senza diritto alla dolcezza o a un ristoro. Nessun ristoro al bambino sbagliato. Nessun ristoro all’adulto mascherato di nero di Zorro fallito.
Nessun ristoro nel sonno che manca, nessuna pace nella preghiera che anche la voce di Dio mancava e io invece la volevo sentire, come i primi giorni… vi chiedo perdono padre ma è così. Smarrita la voce di Dio, che copriva le altre voci, quelle che non si potevano, non si dovevano ascoltare e nessun ufficio a cui chiedere. Un silenzio insopportabile quello di Dio. Insopportabile. Non come il vostro, padre mio, che il vostro silenzio è nido caldo e rifugio. Tranquillizzante come coperte rimboccate e bacio sulla fronte. Che forse ci si potrebbe addormentare, sicuri che la notte non ti farà male. Peso gentile di coperta addosso e una luce da notte sempre accesa che ti promette che i mostri del buio non grideranno la loro fame, non ti porteranno via. Per quella notte almeno. Una promessa da 3 watt. Una cosa semplice. Una piccola luce nel buio. E se una piccola luce porta speranza quando la luce è grande come si può ignorare? Dopo tutto quel buio… una luce, come una lampada finalmente. E non si accende una lampada per metterla sotto un moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono nella casa. Quante? Quante volte lo abbiamo detto in questi anni, sia io che voi.
Gesù! Gesù! Sulla bocca di tanti, padre, ma non nominato invano di pazienza esaurita e rabbia scadente. Gesù riapparso. Gesù ritornato. Gesù reincarnato alleluia alleluia. Alle baracche, in una chiesetta che pare dimenticata dal padre e dallo spirito santo, ma non dal figlio, che lui là ha deciso di apparire. In mezzo a truffatori, carogne e prostitute, che se non è una cosa da Gesù questa non so cos’è. E pure la chiesa lo dice. Che è Gesù dice. Misurato, pesato, esaminato, approvato e timbrato. Imprimatur fresco di giornata. Pure quello oltranzista di Radio Beata lo ha detto. Figlio del Padre a denominazione di origine controllata. Ed io ci sono andato padre. Alle baracche… alla chiesetta, abbandonata come me, dal Padre, andavo a cercare il figlio. Ci vado, mi sono detto. Che devo capire. Devo sapere. Devo vedere. Io san Tommaso disperato. Magari toccare ed essere toccato. E quando esco dalla canonica la zingara che chiede l’elemosina lì davanti mi ferma, dammi qualche cosa zì pre. Che c’hai fretta zì prè? Dove vai zì prè? E non mi fa passare. Dove vai zì prè, c’hai fretta zì prè, dammi qualche cosa zì prè. E non mi fa passare. Dammi qualche cosa. Qualche cosa zì prè. Tieniti tutto, ma lasciami che devo andare a ritrovare Dio le grido, e le do tutto il portafogli che mentre lo faccio penso a Marco 10 versetto 21 “ quello che hai dallo ai poveri e poi vieni e seguimi” e  penso che sto facendo la cosa giusta, così come era scritto e mentre lo penso  sento la zingara che mi grida dietro Bravo zì prè che senza Dio non si va da nessuna parte. E mi convinco ancora di più. Questi sono segni e i segni sono importanti. Pure Giovanni lo dice. Giusta la decisione. Giusti i passi. E i passi mangiano i passi e diventano una corsa che pure se un poco il fiato mi manca, mi pare come di respirare di nuovo. E mi fermo solo per guardare due uomini che ballano il tango, in una piazza. La musica e solo loro due, nella piazza. Sembra passeggino. Scivolano, girano, ma non si staccano mai. Non si lasciano mai. Vicini. Vicini da respirare il respiro dell’altro. Quasi da parlare le parole dell’altro. E questo è un segno e i segni sono importanti. E ricomincio a correre.  
E quando arrivo davanti alla chiesa c’è già un sacco di gente, che pare Natale, pare un’offerta speciale al super mercato o al Mc Donald. Ma mica solo poveri e disperati, che pure ce ne sono a mazzi, no padre mio, gente comune di strada e curiosi e giornalisti coi microfoni,  signore impellicciate e ingioiellate gomito a gomito con certi barboni che la puzza si sente da metri. E altri preti e suore e kippah, veli, turbanti. Pure qualche testa rasata c’è. E due uomini, anziani, che si tengono stretta la mano, e mi sembrano i due della piazza, ma più vecchi e un bambino grasso grasso con una maglietta bianca su cui ha scritto con un pennarello JESUS IS BACK. E mi chiedo perché in inglese. E penso che quel bambino potrei essere io trent’anni fa. Già allora un corpo condanna con dentro un cuore difettoso… sono stato male, malissimo. Quelle cose che i medici non capiscono bene, ma nel dubbio ti dicono che potresti morire.  E allora mia nonna mi portava per santuari e madonne. Tutte le madonne che trovava. Con sveglia e partenza in pullman prima dell’alba, colazione a sacco e rosari a ciclo continuo fino all’arrivo, tolta la pausa della dimostrazione delle pentole senza obbligo d’acquisto. E che fossero santuari, vallate o colline ci inginocchiavamo vicini vicini e io pregavo  seguendo lei, intrecciavo le dita e le stringevo forte, fortissimo le stringevo, fino a quando non cominciavano a formicolarmi e Padre Nostro, Ave Maria, Salve Regina e Gloria al Padre e di nuovo  Padre Nostro, Ave Maria, Salve Regina e Gloria al Padre e ancora e ancora fino a quando l’autista diceva avete mezz’ora per mangiare che io briciole sul mezzo non ne voglio e poi risalire sul pullman e di nuovo rosari a ripetizione  fino all’arrivo, senza pentole stavolta, ma tanto al ritorno mi addormentavo sempre. E nonna diceva che Gesù mi avrebbe salvato. Che ero un bravo bambino. Il più bravo del mondo, quasi un santo. E parlavamo tanto, che lei diceva che le potevo raccontare tutto e che non dovevo avere paura. Che c’era lei e c’era Gesù. E quando stavo più male mi dava da bere l’acqua di Lourdes nella bottiglietta a forma di madonna e a me faceva impressione bere dalla testa della madonna e pure un po’ schifo perché pensavo che magari in quell’acqua ci si erano lavate chissà quante persone e non so perché pensassi questa cosa, ma non riuscivo a togliermela dalla testa e tutte le volte mia nonna insisteva, bevi l’acqua della madonnina che è buona, non ho sete, ma non è questione di sete è benedetta, no davvero magari dopo, no ora e vedevo che ci rimaneva male e allora chiudevo gli occhi e bevevo e mia nonna era contenta e mi diceva che Gesù mi avrebbe aiutato. E poi quando stava per morire, sono stato io a darle l’estrema unzione e volevo dirglielo padre, volevo dire a mia nonna che avevo paura e lei se ne stava andando e forse pure Gesù, ma non ci sono riuscito perché lei mi guardava e sorrideva e mi diceva  che aveva ragione lei, che ero quasi un santo e… una parte di me pensava che fosse sbagliato, che stavo mentendo, che mia nonna credeva in una bugia e si sbagliava e se si sbagliava su quello forse si sbagliava anche su tutto il resto. 

E sono lì col mio cuore difettoso o forse l’anima chissà. 

Siamo tutti lì. E aspettiamo tutti la stessa cosa. E stiamo stretti e aspettiamo. E pare quasi che anche il tempo stia aspettando, un colpo di pistola, un semaforo verde, qualcosa per ricominciare a scorrere normalmente. E al portone continua ad accalcarsi gente.  E continuiamo ad aspettare e siamo sempre più stretti. La chiesetta è piena come forse non lo è mai stata. Solo l’altare è vuoto. Non è transennato, nessuna corda, nessun ostacolo, ma nessuno ha il coraggio o la forza di salire come non fosse il caso o non fosse il momento. Come ci fosse una mancanza. Ma la mancanza della presenza non è assenza. E la presenza mancante si manifesta. Perché come dice Matteo 18, 20 “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” e noi siamo trecento. È lì. Ed è lui. Coi segni ancora vivi dei chiodi nelle mani e nei piedi. E la corona di spine e un panno bianco drappeggiato sui fianchi. Gesù.  Ed è bello padre mio. Bello che non te lo aspetti così. Ma non di quella bellezza lontana da immaginetta, capello lungo setoso, occhi di foglia, fisico asciutto, preghierina dietro e amen. No! Bello umano terreno, con occhi scuri profondi, capelli scomposti e pancetta di gioia da tavola e vino a caraffe, mica a bicchieri. Bellezza vicina di cose condivise e non dette, ma attese da tempo come il Padre aveva promesso. Che lo vedi che è pieno di cose dire e da insegnare. Bello come un abbraccio caldo che ti restituisce a te stesso. Viva, terrenissima, gioiosa, vicina bellezza. Un po’ come voi padre mio. Vivo e vicino nei miei pensieri. Penso alla prima volta che vi ho visto padre mio. Voi sicuramente non vi ricordate. Ero quasi alla fine del seminario, e voi siete venuto per una lectio divina. C’era un rumore incredibile nella stanza, ma al vostro ingresso silenzio improvviso e spontaneo, è passato un angelo avrebbe detto mia nonna. E avrebbe avuto ragione. A tutti noi siete sembrato un angelo. Imponente e gentile. Con le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci e il colletto slacciato. E un sorriso che sembrava ancora più luminoso vicino al piglio serio e compunto del rettore che vi stava accanto. E il modo in cui ci avete parlato… per la prima volta ho sentito il Vangelo veramente vicino. Per la prima volta sicuro della mia scelta, per la prima volta al posto giusto, nel momento giusto. A casa finalmente. Che casa mia, una casa non lo era mai stata. E il seminario poi, pensavo mi avrebbe protetto e allenato, mi avrebbe fatto cavaliere. Cavaliere senza spada in armatura nera a portare la luce. Il seminario castello e fortezza, ma quante prigioni e segrete e segreti poi a tenerne le mura. Che mostri da sfamare lì dentro a bizzeffe e certi non si distinguevano dai domatori o dalle prede. Mai stato una casa quel posto.  E poi voi e i gesti e le idee. Che non avevo mai pensato che casa potesse essere un’idea o una persona. Un gesto poi. Mi ricordo che ci diceste che c’è un Dio meraviglioso nelle piccole cose, che a volte lo avremmo trovato nascosto nei dettagli. 
E quando il vice rettore disse che il peccato più grave è la bestemmia, voi rispondeste che il peccato peggiore è la superbia, che da quella viene tutto il male. E nuove parole che c’hanno donato nuovi pensieri.
I pensieri, i pensieri sono importanti che quelli nessuno li vede, ma c’hanno tanto di noi, tutto forse, tutto il più vero.  E pure lui l’ha detto. Giovanni 8, 32 “La verità vi renderà liberi.” E io libero voglio essere. Come dice Fabrizio Moro, libero dalla paura del futuro e da uomo libero ricominciare perché la libertà è sacra come il pane… come il pane.
Il pane. Il pane spezza. E lo distribuisce e pure quello è semplice, il pane dico.  Rosette, francesine, ciabatte e un paio di panini all’olio. Qualcuno lo ha portato e lui lo divide tra tutti e mentre lo fa ha come una specie di felicità nella faccia. E qualcuno passa il vino e pure quello si capisce che lo hanno portato in tanti, che le bottiglie sono diverse, ci stanno pure tre fiaschi e un vino in cartone che quasi sicuramente è del barbone. Ed è una festa. E nessun vitello grasso da sacrificare, ma tanti figli tornati a casa dopo essersi persi nel mondo. È una bella festa. E vi sarebbe piaciuta, padre mio, che era fatta di cose piccole. E poi Gesù si è avvicina ad una persona e tutti così improvvisamente zitti che penso, è passato un angelo. E poi Gesù prende il viso di questa persona tra le mani e si avvina ancora e tutti sempre più zitti che penso che gli angeli sono almeno tre. Che solo tre angeli potevano raccogliere tutto quel silenzio. E mi è venuto in mente che mia nonna conosceva i nomi degli angeli del silenzio e non me li ha mai voluti dire. E guardo Gesù che ha ancora tra le mani il viso di quella persona. E tutti aspettiamo come un gesto o un miracolo forse.
E mi è venuto in mente il mio amico Saverio che si domandava quale fosse la distanza giusta di un bacio, quando tu guardi negli occhi lei, lei guarda negli occhi te e nessuno dei due fa niente. Ma Gesù invece sta facendo qualcosa, le mani sul viso di quella persona, a carezzare e contenere, ed una dolcezza… come quando si tiene un uccellino, e quelle mani, coi segni dei chiodi, che uno non lo direbbe di carne squarciata viva, sembrano anche più belle, fatte per quel momento, per quel gesto. Di lento, lentissimo ricongiungimento. Che, padre mio amato, sembra non debbano mai toccarsi quelle labbra per quanto tempo ci stanno mettendo a raggiungersi. Promessa fatta a suo tempo e quasi dimenticata di gente che vaga nel deserto. E tutto il silenzio attorno. Ma bello però, non da buio disperato, da attesa di un dolore. No. Una cosa di pace in terra, ego te absolvo e così sia. E poi… due bocche diventano una. Ed è lungo quel bacio. Sa di per sempre. È vero quel bacio. È umano quel bacio. E in qualche modo che non so spiegare è come se guarisse le ferite. Le mie almeno.  È … amore sotto gli occhi di tutti. Amore di amatevi come io vi amo. Amore tutto Claudio Baglioni bello come il cielo, il mare, il giorno. Come Dio. Bello come un bacio. E puro padre mio. Che manco un briciolo di sporcizia c’è in quel bacio, niente cose di saliva lumacosa e luci rosse, ma qualcosa di cantico dei cantici tutto pieno di purezza. Amore puro garantito tipo bacio di principe a bella addormentata. Bacio di risveglio, tic toc  e drin, buongiorno e buona vita, che tutti quelli attorno stanno come… come trafitti… bello essere trafitti, sentire qualcosa che ti sconquassa e ti rimescola e calore, forte dentro, nella carne, nelle ossa, nel respiro, pure nei pensieri quel calore, nei desideri, calore che ti riporta in vita che Lazzaro alzati e cammina così deve essersi sentito e forse anche un po’ ubriachi, ma felici, di una felicità che non pensavi potesse essere tanta, assoluta, che di più un cuore umano non la può gestire. E stiamo tutti là, come Sante Terese scolpite… Un’epifania con tutte le cose al suo posto, re magi oro incenso e mirra con angeli annunciatori e cherubini con la tromba. 
Mi ha svegliato. Occhi che non vedevano ora vedono bene. E quello che ho davanti agli occhi è uno spettacolo struggente e dolcissimo di gente che si abbraccia e piange ridendo. E mi tocco il viso e anche io piango, che sento di nuovo Dio come all’inizio. E il miracolo si è manifestato. Un miracolo. Semplice e potente. Come un buon miracolo deve essere. Ora so. Il messaggio nuovo ha fatto di me un uomo nuovo. Amatevi come io vi amo. Ed esco dalla chiesetta non più dimenticabile, amatevi come io vi amo, e mentre esco un’altra zingara mi ferma e dammi qualche cosa zì pre. Che c’hai fretta zì prè? Dove vai zì prè?  Amatevi come io vi amo. E non mi fa passare. Dove vai zì prè, c’hai fretta zì prè, dammi qualche cosa zì prè. E non mi fa passare. Dammi qualche cosa. Qualche cosa zì prè.  Amatevi come io vi amo. E io non ho niente da darle e non so cosa fare e all’improvviso si mette in mezzo la mia zingara, quella della mia parrocchia e dice all’altra Lui lascialo perdere perché è di Dio. Sono di Dio. Io come sono. Non sono una porcheria, non sono sbagliato, sono di Dio. E amo come lui ama e corro e corro e corro.  E mentre corro da una radio esce quella canzone che si intitola Sunny e io so cosa dice. La mia vita era piena di pioggia, mi hai sorriso e hai alleviato il mio dolore. E dice grazie per l’amore che hai portato nella mia strada, grazie per la verità che mi hai permesso di vedere. Dice ora i giorni nuvolosi sono finiti e quelli luminosi sono qui. E pure questo è un segno. E io corro. E non mi manca il fiato, che respiro di nuovo. Dalla bocca, dal petto. Pure dalle orecchie respiro, dai capelli respiro. E mentre corro mi pare di sentire come una specie di musica attorno e non viene da una radio o da una televisione, stavolta è come se venisse dalle strade e i palazzi e forse è l’aria che canta. E quella sinfonia è così… necessaria, che mi domando come potrei farne a meno.
Ed ora sono qui padre. Dalla prima lettera di Giovanni, “Chi dice io l’ho conosciuto e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui.” Io l’ho conosciuto e sono qui. Con la verità divina che mi brucia nel petto che non è più caverna fredda di paura. Qui come il sordomuto guarito, con le orecchie aperte capaci di sentire di nuovo giusti i miei desideri e la lingua sciolta pronta a riversare il mare che mi si agita dentro. Ho sentito anche io Effatà. Apriti. Qui, già in ginocchio, pronto ad aprirmi. Ed ora che sono libero e credo di nuovo, posso dirvelo… posso dirtelo. 
Ti amo. Ti amo come lui ci ama. Ed è bello potertelo dire. E sembrava difficilissimo da fare, invece è una cosa semplice. Ti amo. Una frase piccola dove ho trovato Dio, come tu mi hai insegnato. Ed è meraviglioso, proprio come dicevi tu. Ed è nutriente pane, inebriante vino. E forse sono ubriaco anche io e pieno di tutta questa giornata e del miracolo che ho vissuto, che sennò non avrei avuto il coraggio di parlarti nudo. Nudo senza vergogna, come prima di mordere il frutto proibito. Eppure io ora so. Nudo il mio cuore e nuda la mia anima davanti a te. E questo corpo che mi permette di sentirti e vederti e toccarti, questo corpo carne viva, mi sembra finalmente un dono. Ma parla. Dici qualcosa. Parla. Che a me sembra di averle dette tutte le parole. Di averle finite se tu non parli. Ti prego, non lasciarmi così, abbandonato in questo vuoto di suoni. Dopo tutta quella musica… Una parola. Anche due lettere vanno bene. Sì? No? Un verso di gioia o disgusto, ma non questo silenzio doloroso, insopportabile come quello di Dio. Parla! 

Tira la tendina e scopriamo che il confessionale è vuoto. Rimane per un tempo come uno che ha perso tutto, poi lentamente, apre il cancelletto del confessionale, entra, lo chiude, si siede, tira la tendina.
Buio.