“Il fiore” al Teatro d’ateneo

di Rossella PETROSINO

Che il Teatro di Ateneo apra le sue porte per uno spettacolo teatrale è sempre una bella notizia, che lo faccia per uno spettacolo come “Il fiore che ti mando l’ho baciato” è una fortuna! Ma le origini di questo progetto teatrale hanno poco a che fare con il caso fortuito; piuttosto ci raccontano di incontri importanti.
Il primo di questi avviene nel lontano 1913: “Mi chiamo Stamura Segarioli. Sono nata il 16 agosto 1892. Sono della provincia di Orvieto. Era il 1913 quando, a Castelgiorgio Perugia, conobbi Francesco Fusco. Io maestra elementare. Lui tenente medico”(1). La storia di questa conoscenza che poi diventa una storia d’amore particolare e toccante la si trova nelle lettere che Francesco Fusco invia a Stamura Segarioli e viceversa, dove si legge di loro, due amanti infelici che, causa la guerra, non hanno la gioia di vivere fino in fondo la loro storia d’amore. Queste lettere fanno parte dell’Archivio Privato Fusco e, fino al 2015,(2) si trovavano presso la residenza del dottor Lorenzo Fusco, sito in Carano (Sessa Aurunca). Qui avviene il secondo incontro importante, quello tra la professoressa Antonia Lezza e il carteggio d’amore e – ancora una volta – non è la fortuna a volerlo, bensì l’interesse della prof.ssa per gli archivi di persona. “Mi sono sentita attratta da una donna coraggiosa, intelligente, coerente e da un uomo sensibile, colto, sempre alla ricerca dei propri sentimenti. Ho voluto conoscere meglio la loro storia e così ho chiesto a Rosa e Nino, i nipoti di Stamura e Francesco, di avvicinarmi a loro, di leggere le lettere di Francesco, il diario di Stamura e tutto il materiale dell’Archivio privato di Stamura (l’Archivio Fusco).(3)
Dalle testimonianze scritte, così originali e significative, nasce l’idea di ricavarne un testo drammaturgico. E veniamo al terzo incontro importante. “Non mi piaceva l’idea di un reading, troppo statico e anche in verità un po’ abusato, ma piuttosto avrei preferito fare ricorso ad una vera drammaturgia. Ne ho parlato con Anna Rita Vitolo che a sua volta si è rivolta ad una giovane e valente drammaturga come Elvira Buonocore e, pensando alla messinscena, ha chiesto la collaborazione di un regista come Antonio Grimaldi con il quale aveva condiviso altre interessanti esperienze”.(4) 
Così nasce “Il fiore che ti mando l’ho baciato” e debutta nell’agosto del 2015, a cento anni dall’inizio del Primo Conflitto, nella casa di Stamura e Francesco a Carano.
Dopo diverse repliche (tra cui l’ultima di particolare successo presso la Sala Assoli di Napoli il 20 e 21 febbraio 2024) lo scorso 29 maggio lo spettacolo va in scena presso il teatro Filippo Alison e assume i connotati di una intima cerimonia. Ad assistervi studenti, docenti e appassionati di teatro, molti dei quali provenienti dal Dipartimento di Ingegneria(5) Industriale, promotore dell’evento congiuntamente al Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale. 
In sala presenti con entusiasta partecipazione Maria e Rosa Fusco, nipoti di Francesco Fusco e Stamura Segarioli che con generosità e coraggio hanno consentito di “frugare tra le carte” dei nonni e hanno reso possibile il progetto. Un interessante e raffinato monologo.   
La scena appare disseminata di oggetti, una valigia, un grammofono, un paio di scarpe da uomo, un elmetto, una coccarda tricolore, forbici e tante, tantissime lettere sparse. Al centro della scena una sedia e poco più indietro, ai lati, due ventilatori. Entra una donna in abito da sposa con uno scrigno tra le mani, è Stamura; subito irrompe una voce, è chiaro che si tratta dell’uomo che la ama, Francesco. L’intera rappresentazione è affidata alla solitaria interpretazione di Anna Rita Vitolo, la quale con pochi gesti significativi rievoca con gentilezza e femminilità la storia della sua battaglia amorosa. L’imbastitura dello spettacolo è gettata a terra al palcoscenico, nelle lettere sparse disordinatamente; spetta all’attrice raccoglierle in ordine e recitarle, per ricostruire il racconto di un amore lontano e distante. Dicevamo non è un reading, è una complessa drammaturgia a due voci affidata a un unico corpo. Stamura talvolta legge, talvolta recita, alle volte gioisce, spesso si dispera. Legge le lettere scritte e inviatele da Francesco con la speranza e l’illusione di  altro da quello che già sa, spera di scoprire, non si sa come, un altro finale a quella storia. Non accadrà! Di questo tormento l’attrice Anna Rita Vitolo ci restituisce un sentimento puro, che non ha fretta di essere mostrato al pubblico. Se è vero che il tormento è frutto di un’afflizione duratura e continua nel tempo, l’attrice si lascia percorrere – con altrettanta precisione e onestà – anche dalla gioia e dall’estasi delle felici aspettative. Riporto le sue parole che si leggono nella prefazione al Quaderno e che risultano quanto mai sincere: “Ho scavato fino in fondo in quell’amore, ho riordinato la trama, l’ordito di quella storia. Ho vissuto dentro Stamura, finché ho potuto. Finché potrò, lo farò”.(6) Lo ha fatto, ha condensato nel tempo finito dello spettacolo, il travaglio emotivo di Stamura, restituendo il senso di precarietà del suo amore messo a dura prova dalla guerra. La accompagna sapientemente in questa direzione la regia di Antonio Grimaldi, il quale insiste sulla espressione della caducità, ovvero sulla precarietà di un legame tenuto in vita dalla corrispondenza epistolare, minato non solo dalla distanza ma anche dalla censura, come si evince da alcune lettere recitate. Questo equilibrio provvisorio è ben rappresentato dalle innumerevoli lettere e brandelli di carta sparsi sul palco in balia del vento provocato a un certo punto dall’accensione dei due ventilatori.    
Perché è una fortuna assistere a questo spettacolo? 
Perché da spettatori ci si sente testimoni di una preziosa storia di vita.
È già qualche tempo che viviamo un mondo in cui prevalgono le narrazioni sulla realtà, conta quello che si racconta non tanto quello che effettivamente risulta reale. Sembriamo esserci abituati a usare le narrazioni più sintetiche e funzionanti e usarle come un dato reale. Non sto a discutere questa nostra tendenza oggi ma la voglio usare per spiegare il mio entusiasmo difronte a uno spettacolo che – assolutamente in controtendenza – celebra l’assenza di narrazione.  
Questo accade per una ragione molto specifica: perché la drammaturgia dello spettacolo è discreta. Mi spiego meglio. Laddove si inseriscono gli interventi di scrittura da parte della drammaturga Elvira Buonocore, questi risultano perfettamente amalgamati al grande impasto di lettere e carteggi. Non interviene narrazione in sostituzione di altri resoconti del vero tale da far perdere precisione.
Il lavoro di approccio a un archivio non deve essere cosa semplice, la selezione e il riordino dl materiale richiedono un rispetto che risulta evidente in questo spettacolo. In questa direzione converge il lavoro dell’intero cast dello spettacolo: attrice, drammaturga e regista hanno lavorato in armonia, ognuno di essi intervenendo autonomamente e intelligentemente per sottrazione, non rischiando così di perdere il concreto dominio della complessità del reale. 

1) Il fiore che ti mando l’ho baciato, Quaderno dell’Associazione Centro Studi sul Teatro Napoletano Meridionale ed Europeo, Dante & Descartes, Napoli, 2024, p. 35.
2) Nel 2015 il corpus delle lettere è stato donato alla Professoressa Antonia Lezza, già professoressa di Letteratura Teatrale Italiana all’Università degli Studi di Salerno e Presidente del “Centro Studi sul Teatro Napoletano Meridionale ed Europeo”. Attualmente il carteggio è custodito presso la Biblioteca del Centro Studi, in Via Matteo Schilizzi, 16, Napoli. 
3) Ivi, p. 7.
4)  Ivi, p. 17.
5) Il testo, pubblicato nei “Quaderni” dell’Associazione, è dedicato alla professoressa Rossella Nobile, studiosa e docente di Ingegneria Industriale di grande valore, che amava moltissimo il teatro, la letteratura, la musica ed ogni forma d’arte confermando come spesso scienza e arti possano e debbano coesistere e completarsi.
6) Ivi, p. 22.