Il fiore che ti mando l’ho baciato, l’amore come un atto di resistenza alla barbarie umana 

di Antonio GRIECO

Ce lo confermano ad ogni ora del giorno le immagini che da mesi vengono trasmesse dalla televisione dell’inferno di Gaza o dell’Ucraina.  La guerra, oltre a violare le norme più elementari del diritto internazionale cancella ogni forma di vita e di convivenza civile, sopprimendo qualsiasi sentimento di umana pietà, riportandoci in un battibaleno ad uno stato primitivo, arcaico, primordiale. Coinvolto direttamente nel conflitto l’essere umano – si pensi ai tanti giovani costretti dai governi dei loro paesi ad arruolarsi per andare a combattere in trincea – senza rendersene conto, distrugge sé stesso, la sua umanità, trasformandosi in cosa, in un burattino animato da forze oscure, che non riesce a cogliere nella morte di migliaia di bambini e di donne la “sua morte”, la perdita di sé, la negazione della sua originaria innocenza. «L’umanità – scrisse Alberto Asor Rosa nel suo interessante saggio sulla Guerra (La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, 2002, p.47) – non ha più neanche diritto a quel sentimento liberatorio che è “l’orrore della Guerra”».  Di fronte a questa inarrestabile deriva umana, sono stati spesso le artiste e gli artisti, le donne e gli uomini di teatro, ad aprirci gli occhi con la loro creatività sulla feroce, inaudita crudeltà che sotterraneamente permea le nostre comunità. Vengono immediatamente in mente, volgendo soprattutto lo sguardo al  massacro di migliaia di palestinesi a Gaza, le tremende immagini di “Guernica”, il dipinto di  Pablo Picasso ispirato al bombardamento terroristico degli aerei tedeschi e italiani che rasero al suolo la cittadina basca; o certe opere di Tadeusz Kantor e di Bertolt Brecht che misero in scena  “la realtà degradata – per dirla col visionario artista e  regista polacco – al suo “rango più basso”; né va dimenticato che sull’assoluto rifiuto della cosiddetta “Guerra giusta”, il nostro Roberto Bracco, in grande solitudine, creò un testo, L’internazionale (1915), che, contro l’idea bellicista (e marinettiana) della “Guerra come sola igiene del mondo”,  si presentava come il manifesto politico di un pacifismo senza confini, anticipando, a parer nostro, di qualche anno il “teatro epico” di  brechtiana memoria.  In questo buio, in questa scientifica distruzione di ogni barlume di umanità, crediamo che il primo sentimento che è stato brutalmente   cancellato dal nostro sguardo sia stato quello dell’amore: la possibilità cioè di ogni essere umano di condividere con l’Altro la speranza di un nuovo inizio, un ideale, comune progetto di vita. Per tutte queste ragioni, ci è apparsa non solo giustissima ma necessaria la rappresentazione, per celebrare il Centenario della Grande Guerra, de Il fiore che ti mando l’ho baciato, un monologo teatrale sulla guerra nato da un’idea di Antonia Lezza nel 2015 – con Anna Rita Vitolo protagonista e la regia di Antonio Grimaldi – andato in scena, con grande successo di pubblico, alla Sala Assoli il 20 e 21  febbraio di quest’anno e il 29 maggio scorso al Teatro  d’Ateneo dell’’Università degli studi di Salerno. Di notevole rilievo, innanzitutto dal punto di vista culturale, a questo proposito, ci è anche sembrata la decisione di pubblicare (Antonia Lezza, Anna Rita Vitolo, Elvira Buonocore, Antonio Grimaldi, Il fiore che ti mando l’ho baciato, Dante & Descartes, 2024) l’intera drammaturgia dello spettacolo con la prefazione di Antonia Lezza , che nella sua attenta analisi del testo sottolinea come il Il fiore – oltre ad essere un inno all’amore, alla maternità e alla femminilità – “rappresenti un importante documento nella ricostruzione degli eventi della Grande Guerra”.  L’interesse di spettatori di tutte le età per questo lavoro crediamo abbia diverse ragioni: la prima, risiede a nostro avviso nella magistrale interpretazione di Anna Rita Vitolo che ha riannodato, con grande sensibilità attoriale, tutti i fili di una struggente storia d’amore nata da un intenso scambio epistolare – prima e nel corso del  primo conflitto mondiale – tra Francesco Fusco, un ufficiale medico nativo di Cairano (Sessa Aurunca) e la giovane Stamura Segarioli, una brava maestra elementare che ha conosciuto il giovane Francesco ad Orvieto: ebbene, il grande merito dell’attrice  sta soprattutto nell’aver trasformato, con il suo corpo, con i suoi misuratissimi gesti,  con la dolcezza del suo sguardo, quell’umanissimo carteggio – ritrovato da Rosa e Nino, nipoti di Francesco e Stamura –  in pura poesia della scena, in una vibrante testimonianza sull’amore sognato e poi tragicamente interrotto dall’Apocalisse del conflitto mondiale. L’altro aspetto per noi decisivo dell’emozione che abbiamo provato sia rileggendo il testo che assistendo a questa delicata rappresentazione – che si è avvalsa dell’intelligente riattivazione drammaturgica di Elvira Buonocore  –  è  legata, come abbiamo accennato all’inizio,  al dramma dei nostri giorni,  alle guerre infinite che oggi stanno dilaniando le nostre comunità in ogni angolo del nostro pianeta.  E allora, questo emozionante monologo – tratto dalle lettere che Francesco e Stamura si scrivono tra il 1913 e il 1915 con la speranza finalmente di rivedersi per vivere un altro tempo della vita – non solo parla del nostro presente, ma crediamo costituisca anche un monito per le donne e gli uomini di questo terzo millennio a non dimenticare, a rifondare le nostre esistenze, individuali e collettive, a partire dall’amore: dall’amore puro che è innanzitutto rifiuto della violenza, rispetto di se stessi e dell’Altro  che ci è accanto, in armonia con tutto ciò che abita la nostra terra. “Mi sono alzata – scrive Stamura a Francesco – con la voglia di respirare questo odore fresco e mattutino. È l’origine di tutto. Questi fiori sembrano un nuovo inizio. Lo pianto per noi, amore, un nuovo principio. Aspetto un bambino”(Il fiore che ti mando l’ho baciato, cit, p.41). E, dunque, dopo quel mondo della vita che ritorna al mare di Formia nei giochi di Lorenzo, il  bambino nato dalla loro unione, la parte per molti aspetti più lirica e al tempo stesso più crudele del monologo è quella che racconta l’esperienza di Francesco al fronte: una vita di dolore e di stenti in trincea, di attesa di una morte che inesorabilmente si avvicina  e distruggerà  migliaia di vite umane: “Mia cara Stamura, siamo a 3 chilometri solo dalla frontiera austriaca dalla parte del Trentino, ma la nostra artiglieria ancora non ha preso parte ad alcun combattimento”. La scena è scarna. Solo una sedia, lettere sparse sul palcoscenico che saranno raccolte e poi lette da Stamura, una valigia con del terreno e dei fiori: tutti segni allusivi di una vita sognata e poi definitivamente distrutta dall’ultimo messaggio del comando che le annuncia la scomparsa di Francesco. Anna Rita Vitolo, vestita di bianco in abito da sposa, ha in scena il dono della innocenza, della leggerezza, in ogni sua azione. Quando si abbandona al suolo stremata o è in piedi nella penombra della scena, ricorda lo stupore e la grazia romantica dei ritratti di donna della pittura Preraffaellita.  Ma, poi, questa memoria epistolare tra i due “casti amanti” – sorprendente anche per l’eleganza letteraria della scrittura – è qui solo apparentemente privata, perché spinge a chiederci quante storie d’amore come quelle di Stamura e Francesco sono state brutalmente interrotte in queste ore dalla inaudita violenza del Potere. Dunque, quel delicato sogno d’amore “sospeso”, di cui hanno acutamente parlato su queste pagine anche Eleonora Puntillo e Rossella Petrosino, possiamo in fondo “leggerlo” come un necessario atto di resistenza culturale alla barbarie umana di ogni tempo e luogo: una preziosa memoria collettiva che può aiutarci a rifondare le nostre comunità partendo proprio dal quel “fiore dell’amore” che segretamente ci unisce all’Altro, oltre quel “tempo dell’uccidere” che ha segnato tristemente la recente storia dell’Occidente. Il fiore che ti mando l’ho baciato è un monologo teatrale vivo, proprio perché sullo sfondo allude poeticamente alla amara realtà del mondo che abitiamo. Speriamo che questo spettacolo, così intenso e vibrante, insieme al prezioso volume che lo accompagna, possa continuare a vivere nelle nostre scuole, nei nostri teatri, nelle nostre università, perché mai come in questo momento abbiamo bisogno della sua struggente poesia che ci fa sentire vicini a quel disperato grido di dolore di milioni di esseri umani che nessuno tra i potenti della terra intende davvero ascoltare.