La “lezione” del Living Theatre da Napoli a Caggiano

Un interessante progetto di politica culturale della Fondazione Morra: gli Archivi del Living Theatre a Caggiano, nel cuore del Cilento   

di Antonio GRIECO

La decisione della Fondazione Morra – presieduta da Teresa Carnevale e Giuseppe Morra – di inaugurare (il 13, 14 e 15 luglio) a Caggiano, splendido borgo nel cuore del Cilento, lo spazio “Archivi del Living Theatre. Caggiano” (presso Palazzo Prospero Morone e Giuseppina Morone in Bonito Oliva), è una scelta coraggiosa che più che concludere il grande progetto perseguito sin dagli anni Ottanta dalla stessa istituzione di raccogliere i documenti del rivoluzionario gruppo teatrale americano (opere d’arte, disegni, diari, fotografie, recensioni, scenografie, appunti), sembra suggerire un’altra possibile fruizione dell’arte attraverso una politica di decentramento culturale volta a rivitalizzare luoghi ai margini della scena ufficiale. Nei tre giorni dell’inaugurazione, negli storici palazzi d’epoca di Caggiano si sono tenuti, tra l’altro, interessantissimi incontri, concerti, convegni, performances, eventi, che hanno visto la partecipazione – oltre quella, particolarmente significativa, di Garrick Beck, erede di Julian Beck e Judith Malina – di studiosi e artisti del Living che hanno ricordato quanto sia ancora attuale la poetica libertaria del gruppo americano. Questa di Morra e dei suoi collaboratori sembra dunque far pensare ad una idea di programmazione culturale che ci invita a riconsiderare una dimensione pubblica dell’arte dove il territorio si trasforma in un dinamico, propulsivo centro globale di cultura alternativa. E se questo è l’obiettivo più generale  (e “politico”)  del progetto della fondazione – “senza spazio e senza tempo”, sottolinea Morra nel suo intervento nell’affollata sala del Castello Normanno del Guiscardo – realizzato in collaborazione con il Comune di Caggiano e la Regione Campania, e con la partecipazione dell’Università di Victoria (Canada) – allora dobbiamo dire che non vi poteva essere modo migliore per renderlo vivo che partendo dalla formazione di Julian Beck e Judith Malina e dalla sua stupefacente storia teatrale; una storia, questa del gruppo americano che – crediamo sia giusto  ricordarlo – ha vissuto proprio qui, in Campania e a Napoli, negli anni Sessanta del Novecento, uno dei suoi momenti più esaltanti (come ricorda anche Cathy Marchand, attrice del Living, in una preziosa testimonianza raccolta da Marianna Anita).

 Il gruppo, chiamato a Napoli dal Gruppo Nuova Cultura presentò, nel 1965, due spettacoli: Mysteries and Smaller pieces e The Brig, al teatro San Ferdinando; nel 1967, al Teatro Politeama, Frankestein e Antigone, e ancora, nel 1969, Paradise Now, al Teatro Mediterraneo. Da segnalare, non solo per una semplice notazione di carattere  aneddotico, è che dopo un loro lavoro ospitato al San Ferdinando, il gruppo volle assistere ad una commedia di Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello, restandone letteralmente affascinato («Che meraviglia!», esclamò Julian Beck)1. 

 Il che evidentemente dovette suscitare un qualche imbarazzo in quella parte (non certamente marginale) della sperimentazione artistica napoletana che considerava Eduardo (probabilmente perché incarnava “la tradizione vivente” da cui occorreva al più presto liberarsi) espressione del “peggiore populismo meridionale”2 chiuso in un mero recinto localistico. Ciò che ci preme qui sottolineare è che la presenza del Living Theatre a Napoli – in un periodo, siamo tra il 1968 e il 1969, di grandi sconvolgimenti socio-politici, ebbe una influenza estremamente positiva su di una nuova generazione di teatranti che cercarono di aprirsi al “nuovo” senza però mai recidere del tutto, a differenza dei protagonisti della neoavanguardia artistica, l’intimo legame con le proprie radici. Riandando alla linea seguita dai gruppi sperimentali napoletani degli anni Sessanta/Settanta, dobbiamo aggiungere che essi, del gruppo americano, ripresero quei tratti essenziali che tendevano a fondere una radicale destrutturazione dello spazio scenico tradizionale con l’orizzonte antistituzionale della loro ideologia anarchica: dall’idea di una creazione di un nuovo teatro come risultato di una creazione collettiva alla negazione della parola in nome del primato del gesto, dalla corporeità come elemento fondante di un nuovo spazio scenico alla libertà sessuale, all’improvvisazione, al pacifismo, al contrasto di ogni forma di violenza dell’uomo sull’uomo. Insomma, un teatro libero mai subalterno al sistema di potere dominante e, soprattutto, mai mercificato e separato dalla vita. «Il teatro – scrisse Julian Beck ne La vita del teatro, il testo in cui egli riassume cronologicamente il percorso artistico del suo gruppo – deve finirla di essere un prodotto comprato e pagato dalla borghesia. L’era del comprare e vendere deve finire. Il teatro deve finirla di essere servo di un sistema in cui le sole persone che vanno a teatro sono quelle che possono pagarlo. I popoli sono diseredati. Bene artisti attivisti reciteranno nelle strade»3.

 Il Living parteciperà, come è noto, al “maggio francese” e sarà poi espulso dall’Italia.

Tutti gli spettacoli del Living sono accolti in città dalla partecipazione numerosa ed entusiasta del pubblico giovanile, mentre la stampa cittadina o ne ignorò  la presenza o ne diede un giudizio poco lusinghiero; un atteggiamento, questo dei media napoletani, che fu duramente stigmatizzato dall’ artista critico de «l’Unità» Paolo Ricci, che, dopo aver esaltato i meriti sia contenutistici che artistici del gruppo americano, osservò: «Sintomatico è che, da parte di qualcuno, che pure qualche giorno fa affermava di non aver paura dell’avanguardia, sia venuta la critica più negativa a questo spettacolo, che dell’avanguardia è uno dei più smaglianti, validi e profondi esempi. Il fatto è che questi signori scambiano avanguardia per evasione, mentre essa è e rimane, impegno, verità, lotta contro pregiudizi e luoghi comuni. Gli attori del Living Theatre, che sono, innanzitutto uomini coscienti e moderni, l’avanguardia così la intendono; ed è proprio per questo motivo che il loro messaggio riesce ad essere universale e colpire il nostro cuore e la nostra mente»4. 

  Come accennavamo, è difficile capire – per dirla con Herbert Marcuse, padre della contestazione globale – il «Gran Rifiuto» dei gruppi teatrali sperimentali napoletani senza tener conto dell’eco del gruppo americano in ogni ambito della vita artistica e culturale napoletana.5 In particolare, la storia del Centro Teatro Esse – diretto dal regista Gennaro Vitiello – e quella di Mario e Maria Luisa Santella col gruppo Alfred Jarry – sono la conferma più chiara del vitale stimolo a cambiare radicalmente i consueti canoni della drammaturgia napoletana; anche se si tratta di esperienze, queste di Vitiello e dei Santella, che fanno pensare  ad un processo innovativo in fondo preesistente, che prende l’abbrivio addirittura qualche tempo prima dell’irruzione nella scena politica italiana dei movimenti antagonisti della fine degli anni Sessanta del Novecento. Il Teatro Esse nasce, infatti, nel 1966, in una ex falegnameria di Via Martucci, nel cuore della Napoli bene, con caratteristiche, ricorda il critico e filmaker Mario Franco, da «Villaggio globale»6. Ma le origini del gruppo, che si scioglierà nel 1972, si possono in realtà far risalire ai primi anni Sessanta, quando alcuni giovani  allievi dell’ Accademia di Belle Arti di Napoli decidono di mettere in scena uno spettacolo con brani di autori diversi.7
Nella stessa zona, qualche tempo dopo, si insedieranno il Teatro Instabile  (TIN), con la direzione di Michele Del Grosso e Marinella Lazzaretti, e il  Play Studio, guidato da Arturo Morfino; nella varia programmazione del TIN, è da segnalare, nel maggio 1968, un evento particolarmente emblematico: il debutto di un nuovo gruppo americano The Open Theater con due spettacoli, The Serpent  e Mesks; entrambi i lavori, ad una radicale messa in discussione della tradizionale scena borghese unirono la denuncia dell’oppressivo dominio capitalistico.

  Tornando al Teatro Esse, occorre dire che sia nelle prime regie di Mario Miano che in quelle successive di Gennaro Vitiello, la linea che sembra orientare il gruppo è quella di un teatro che agisce nella coscienza degli uomini e trasmette valori ed emozioni ad un pubblico nuovo, cui si richiede una attiva partecipazione allo spettacolo. L’altro punto nodale su cui insiste Vitiello – che in spettacoli come La magia della farfalla trasferirà tutta la sua profonda conoscenza delle avanguardie artistiche del Novecento – riguarda la costruzione stessa della messa in scena che non potrà mai prescindere «dall’uso delle tecniche povere e la sua coincidenza col lavoro creativo di Equipe»8. 

 Il lavoro di Vitiello e del suo gruppo di attori artisti (tra cui, Lucio Allocca, Adriana Cipriani, Davide Maria Avecone, Enzo Salomone, Giulio Baffi (poi critico teatrale), Anna Caputi, Leopoldo Mastelloni) più dirompente di quegli anni è – dopo I Cenci di Antonin Artaud – la messinscena de I negri di Jean Genet, incentrata sui temi del razzismo, del colonialismo, di una terra d’Africa violata per secoli dall’Occidente capitalistico. Di grande attualità il segnale che venne dallo scrittore francese, quando finalmente accettò di concedere il permesso di metterlo in scena con attori non di colore: «In fondo – disse – gli attori di un teatro sperimentale, in una realtà come Napoli, sono dei “negri “ del teatro, anch’essi emarginati, anch’essi con il diritto di cercare una loro rivoluzione»9.

Lo spettacolo ha un importante successo di pubblico e diventa un ineludibile punto di riferimento per tutta una generazione di giovani attori interessata ad interrogarsi sui drammi, i conflitti e le angosce di una umanità dilaniata dalla violenza del sistema imperialistico dominante.  

Quasi nello stesso periodo nasce il Gruppo Vorlensungen di Mario e Maria Luisa Santella, che si distingue per una sperimentazione che – come in Experiment/Action/ Experimenta (c) tion (1967) e Ana/logon (1968) – guarda con intelligenza al Living Theatre insieme ad Artaud e al “Teatro povero” di Grotowski. Il gruppo troverà uno spazio in Via S. Maria della Neve, nella zona di Corso Vittorio Emanuele, prendendo poi il nome di Teatro Alfred Jarry – in omaggio al rivoluzionario autore de Il teatro e il suo doppio – e orientando la propria ricerca sulla gestualità e corporeità come elementi costitutivi di una nuova sperimentazione teatrale.  

Lo spettacolo dei Santella più vicino alla poetica livinghiana è Fall out, che debutta nel 1969.

  La puntuale descrizione e analisi critica dello spettacolo di Ricci ci aiuta in qualche modo a capire quanto la sperimentazione di un nuovo linguaggio espressivo, chiaramente influenzato dal gruppo americano, si coniughi sempre ad un utopico, rivoluzionario gesto politico che allude tragicamente al presente. La scena infatti – come in un’immagine de La strada, l’apocalittico romanzo di Cormac McCarthy – ci mostra un mondo desertificato all’indomani di una terribile catastrofe atomica, dove «l’uomo ritrova faticosamente i gesti e i sentimenti distrutti insieme alle cose…Scavando tra le macerie si recuperano oggetti esemplari e rappresentativi della più recente civiltà dei consumi, in nome della quale si è, probabilmente, operata la distruzione totale del mondo»10.

Non molto tempo dopo, i Santella sono costretti ad abbandonare il locale che li ospita, decidendo comunque di continuare altrove la propria esperienza. Non diversamente, Gennaro Vitiello e il suo gruppo, dopo la chiusura del Teatro Esse – che si accompagnò, come per altri gruppi, «al fallimento delle cantine come luoghi privilegiati della sperimentazione e dell’avanguardia»11 – continueranno a fare teatro nel segno della sprovincializzazione dell’arte e di un nuovo rapporto col pubblico: prima fondando il gruppo Libera Teatro Ensemble e in un secondo momento decentrando la propria attività a Torre del Greco, in uno spazio cui danno il nome “Teatro nel Garage”. Ma quel segno poetico così vitale – il segno di Vitiello e dei Santella che volsero il loro sguardo alla travolgente messinscena del Living Theatre – negli anni a venire, lo ritroveremo soprattutto nell’esperienza comunitaria (“fuori dal sistema”) di Leo de Berardinis e Perla Peragallo con Il Teatro di Marigliano e di Antonio Neiwiller col Teatro dei Mutamenti: autori, artisti, poeti della scena, che, come gli attori – artisti del Living, proveranno a resistere ai riti omologanti della “Società dello Spettacolo” in territori periferici, socialmente e culturalmente degradati, pensando ad un nuovo teatro come uno straordinario strumento di creazione collettiva che ci consenta di ritrovare, attraverso la misteriosa e liberatoria luce dell’immaginazione, un nuovo e più umano sentimento dell’universo mondo che abitiamo.

1)M. Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto, Roma, Bulzoni, 2011, p. 142.
2)L. Caruso, Sperimentalismo a Napoli. (Interventi 1966-1990), Firenze, Belforte, 1991, p. 59.
3)J. Beck, La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo, a cura di Franco Quadri con uno scritto di Fernanda Pivano (traduzione di Franco Mantegna), Torino, Einaudi, 1975, p. 63.
4)P. Ricci, Realismo e avanguardia nello spettacolo del Living Theatre, «l’Unità-Napoli», 16 aprile 1965; dello stesso autore, a proposito della presenza del gruppo americano a Napoli, si veda anche, Il Living al Politeama. Un’esperienza entusiasmante, in «l’Unità-Napoli», 26 maggio 1967.
5)Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1964, p. 176.
6)M. Franco, Dal quartiere latino al villaggio globale, in «la Repubblica – Napoli, 3 marzo 2007.
7)Cfr. G. Baffi, Il teatro sperimentale a Napoli, in La scrittura scenica, periodico trimestrale diretto da Giuseppe Bartolucci, 12/1976, pp.37 – 55
8)G. Vitiello, Il teatro di ricerca al servizio di un pubblico nuovo, in Una politica per lo spettacolo, in «Atti I convegno regionale»,Villa Pignatelli, Napoli, 27 – 28 ottobre 1972.
9)Il teatro sperimentale a Napoli, cit.
10)P. Ricci, Fall out, in «l’Unità-Napoli», 30 gennaio 1969.
11)V. Monaco, la contaminazione teatrale, Bologna, Pàtron, 1981, p. 169.