Guida Galattica per i Lettori | Novembre 2025
- AMICO ROMANZO La maestra del vetro di Caterina DE CAPRIO
- SIPARI APERTI Leggere il teatro. Dieci testi esemplari di Gabriella NOTO
- COME SUGHERI SULL’ACQUA Migrazioni di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
LA MAESTRA DEL VETRO
di Caterina DE CAPRIO
Nota al grande pubblico per il successo internazionale de La ragazza con l‘orecchino di perla (1999), Tracy Chevalier con questa sua ultima opera ambientata in Italia (The Glassmaker) propone una storia tutta al femminile di lavoro artigianale, quello delle perle e conterie in vetro. Da studiosa dei rapporti di genere pone al centro del romanzo il suo interesse per una attività minore nelle imprese dei mastri vetrai muranesi (padri o fratelli), ravvisando nel lavoro a lume, svolto in casa da sorelle, mogli o madri una risorsa preziosa per le esigenze familiari e soprattutto un’occasione di autonomia economica per quelle stesse donne, intrappolate da mansioni casalinghe e, nell’industria domestica, considerate fornitrici di servizi complementari da non retribuire.
“Le perle sono un ottimo ripiego nei tempi morti […] Occupano poco spazio e siccome non sono importanti, nessun uomo si sente minaciato se è una donna a farle. Ma sono sempre più richieste, soprattutto come merce di scambio. Pensa che il re di Spagna ne ha ordinate parecchie, per le sue navi che sono salpate verso occidente”. Con tali, incoraggianti parole inizia l’avventura di Orsola Rosso giovane protagonista di un percorso di emancipazione che va dal 1486 e giunge ai nostri tempi, segnati dalla minaccia della pandemia e, per Venezia, dalla straniante realtà dell’eccessivo consumo turistico, praticato in una città d’arte, ridotta così ad essere un parco a tema.
Mescolando realtà e finzione, personaggi inventati e personaggi storici (ad es. quello della Barovier, l’inventrice di tecniche idonee a realizzare rosette e perle di vetro), il romanzo vuole essere un omaggio al l’isola lagunare in cui, per editto della Serenissima, erano obbligati a vivere con i loro serventi i maestri vetrai, gelosi custodi dei segreti delle proprie botteghe e delle proprie lavorazioni. Dalla tranquilla Murano, nei territori di Venezia, si leva infatti lo sguardo indagatore della piccola Orsola che cura l’orto, lava i panni, accudisce i fratellini e sa che la produzione della bottega di famiglia (goti, calici, specchi, lampadari) è destinata a raggiungere paesi lontani ad opera di attivissimi mediatori e mercanti stranieri, comunque residenti nella vicina e misteriosa città di cui finora tutto ella ignora. Saranno le circostanze successive (la morte del padre, le difficoltà del fratello nella conduzione dell’impresa) a farle scoprire i reticoli di vie d’acqua e di terra che dagli spazi ristretti e rassicuranti della piccola isola la porteranno nel cuore di Venezia. Tra campi, fondamenta, rive, salizzade, sottoporteghi, calli… dapprima si smarrirà ma pian piano scoprirà la vivacità della dimensione urbana e saprà emozionarsi di fronte a più ampi spazi, nel Canal Grande o a Rialto, coinvolta dall’incessante viavai di uomini e imbarcazioni che, tra fondaci e uffici di sensali e mercanti, portano casse o rotoli di stoffa o altre merci …
Punto di forza del romanzo diventa dunque il desiderio di rappresentare la nascosta realtà di Venezia scoprendo su un lungo periodo il volto intrapendente e laborioso della città, a dispetto di tante maschere letterarie, abusate e fasulle che le sono state attribuite nel tempo. Privilegiando la lavorazione del vetro per narrare la vita materiale dei Muranesi, la Chevalier si apre una via d’accesso alla comprensione degli scambi commerciali interni alla laguna stessa e a quella degli inevitabili rapporti creati nel tempo da reti familiari o da esigenze economiche per i suoi abitanti. La complessa vicenda di Orsola che con il suo lavoro, all’insaputa di quanti la circondano in casa e nell’isola, si guadagna un piccolo spazio di autonomia ed inizia a cercare se stessa e ad evolversi come persona diventa il punto di collegamento tra le storie parallele, (quella della donna e quella della città) sicché grazie a questo personaggio simbolico, sottratto ai limiti temporali di una vita per attraversare secoli e raccontare i fasti di una capitale e le sue finali difficoltà di città turistica, sopravvissuta a se stessa, l’autrice compie una straordinaria immersione nella quotidianità femminile, cogliendone miti e credenze, vivi nell’immaginario collettivo. Il romanzo registra così le limitazioni del sesso e del gruppo sociale di appartenenza cui è condizionata la protagonista, ma racconta soprattutto le barriere infrante e i pregiudizi da lei man mano superati in un processo di maturità e consapevolezza di sé. Grazie al lavoro e ai risultati che appagano la sua vena artistica Orsola comprende di essere sulla strada giusta per la propria realizzazione come donna prima e come imprenditrice poi: “…iniziò a pestare sul pedale del mantice. Poi prese una bacchetta di vetro a caso e, mentre la infilava nella fiamma viva, sentì scattare qualcosa dentro di sé: il gioco familiare della materia che si liquefaceva e poi prendeva forma, sotto le sue dita. Poteva anche andare tutto storto nella sua vita, ma il prodigio della creazione accendeva ancora le sue mani e i suoi occhi, e la riempiva di soddisfazione e conforto”.
In questa storia di abili artigiani, divenuti nel tempo anche produttori di perle di conteria su ampia scala, per soddisfare le esigenze del mercato, non manca l’evocazione dei momenti difficili, dei lutti e delle sconfitte, tutte perdite destinate a segnare ogni vita e ogni famiglia, come sempre accade. Eppure una luce gioiosa accompagna le pagine del libro, come se le iridescenze delle perle fatte a mano dovessero coi loro riflessi incantare il lettore e coinvolgerlo nell’esperienza ottimale del creare bellezza, quella che gratifica la maga del vetro e la proietta fuori dal tempo e quella che incanta e si respira nella Città d’acqua, testimone dell’unicità del suo passato. Nel riattivarne la memoria, nella trama delle pagine, la Chevalier pensa a Venezia come città storica in cui la bellezza è patrimonio spirituale e non merce da vendere ai turisti, al pari dei souvenir e delle perline colorate, prodotte in serie per fare collanine, orecchini e spille di poco prezzo.
Nel delineare il paesaggio lagunare con i suoi luoghi di coltivazioni e di approvvigionamento l’autrice sembra voler evocare non solo il fascino di luci ed ombre, tra acque, orti e giardini, ma ancor più il diritto alla vitalità più profonda che spetta a Venezia, un diritto ormai compromesso dal graduale spopolamento e dal rischio dell’oblio di sé. Di fronte alla minaccia di una falsa modernità che spinge altrove i suoi abitanti e affolla vie e canali di festosi turisti, le pagine del romanzo tentano di recuperarne attraverso le vicende del passato l’anima verace e combattiva. Esse infatti, oltre al bel racconto di amori e rapporti familiari, implicitamente forniscono nuovi argomenti al dibattito sul futuro della città perché si possa pensare ancora a Venezia come a un luogo di relazioni e socialità, cioè vivo e vitale. L’orgoglio delle sue tradizioni e delle sue eccellenze, a partire dalla leggendaria arte vetraria, conquista così il moderno lettore che insieme alla Chevalier può pensare ai possibili sviluppi di questa antica lavorazione e a credere in ulteriori, sorprendenti sfide dei mastri vetrai muranesi, esperti in tecniche sempre più raffinate e originali al punto da poter competere ancora una volta sui tempi lunghi e per finalità ora inimmaginabili.
Caterina De Caprio
SIPARI APERTI
LEGGERE IL TEATRO. DIECI TESTI ESEMPLARI
di Gabriella NOTO
Il 14 ottobre 1903, Anton Čechov, scrive alla moglie, Olga Knipper e, inviandole una seconda copia del testo de “Il giardino dei ciliegi”, le raccomanda di dire al Direttore del Teatro d’Arte di Mosca, Nemirovič-Dančenko, di inviargli un telegramma per assicurargli di aver ricevuto la sua copia.
Aggiunge in quella lettera alla moglie: “Se il lavoro va, dì che farò tutte le modifiche che l’osservanza della scena richiede. Tempo ne ho, sebbene, lo confesso, questa commedia mi abbia terribilmente annoiato. La casa è vecchia, signorile: un tempo ci vivevano assai riccamente e questo si deve sentire dall’arredamento.”
In due lettere del 1887, l’autore aveva esposto all’amico Lazarev Gruzinskij, le regole che riteneva necessarie per mettere in scena un vaudeville: “Hai raggiunto una buona padronanza della scena e dei requisiti richiesti? I requisiti sono: 1) Completa confusione; 2) ogni personaggio deve possedere caratteristiche e idiosincrasie individuali e deve avere il suo tono ed il suo modo di parlare; 3) niente discorsi lunghi; movimenti ininterrotti; 4) Le parti devono essere scritte per determinati attori; 5) deve essere pieno di critiche sulle condizioni prevalenti in scena perché senza critiche il nostro vaudeville non servirà a nulla”
In una seconda lettera del 24 novembre 1887, raccomanda: “Aggiungendo episodi e personaggi e creando una connessione tra loro, per certo durante l’intera azione il palcoscenico sarà affollato e rumoroso […] La fine del primo atto è molto artificiosa. Non si può chiudere un atto in questo modo. Nell’interesse del secondo atto si deve concludere il primo atto con una riconciliazione delle parti […] a giudicare dalla bozza il testo non sarà breve. Bisogna tener presente che metà del tempo sarà utilizzata dagli attori per i loro movimenti in scena”. Schemi ed idee che saranno compiutamente attuati nella messa in scena de “Il giardino dei ciliegi”
Nel saggio di Anna Sica, presente nella raccolta in commento, sono ben resi il travaglio e la premura del drammaturgo: come tramutare quella bozza di testo (la cui composizione, lo ha molto annoiato) in uno spettacolo teatrale compiuto, che esprima a pieno il senso critico del vaudeville? L’autore era stremato da questa scrittura che non lo soddisfaceva, si era tuttavia deciso a spedire una bozza ai direttori del Teatro d’Arte, e si preoccupava che la resa scenica fosse valida; quale l’aveva meditata, immaginata e teorizzata.
Il lettore che oggi si approcci al testo de “Il giardino dei ciliegi”, potrà farlo considerandolo solo un’opera letteraria ed ignorare queste circostante? Le notazioni di Čechov, quei “requisiti richiesti”, non sono forse parte integrante del testo scritto?
Un testo che, come la maggior parte dei testi teatrali, è “indifeso: manca di un “io narrante” o di un “narratore onnisciente” che possa accompagnare il lettore, spiegare il dipanarsi degli eventi, guidarlo nella conoscenza di situazioni e personaggi.
Sicché anche il grande Čechov, avrà provato l’angoscia di lasciare andare la propria opera verso quella trasformazione quasi magica che avrebbe reso lo scritto un accadimento materiale di voci, di scene, di attori e di pubblico.
Luigi Allegri torna a interrogarsi sul tema della traduzione letteraria (oserei dire del “Tradimento”, per citare un filone di ricerca e discussione che ha appassionato i lettori di questa rivista) del lavoro teatrale; sull’iperbole che si compie quando si sostituisce l’accadere di un evento partecipato, fatto di attori in carne ed ossa, rappresentato in un irriproducibile “qui ed ora”, con la lettura di un testo.
Il gioco teatrale si riproporrà nella mente del lettore, prenderà vita e corpo in base alla sua immaginazione, ai suoi gusti, alle sue conoscenze e ai suoi giudizi. Operazione rischiosissima!
A quel lettore, nel quale deve compiersi la mutazione del testo letterario in opera teatrale immaginifica, vengono fornite delle necessarie coordinate in apertura del volume, nel saggio “Letteratura teatrale, copione, drammaturgia”, ad opera del curatore, seguite dalle proposte di lettura ed analisi di dieci “Testi esemplari”.
Già in “Scritture per la scena. Leggere i testi teatrali”, uscito nel 2021, Luigi Allegri riportava nella prefazione la difficoltà nella quale Averroè si venne a trovare, alle prese con la traduzione della poetica di Aristotele. L’episodio, storicamente realistico, fa parte di un racconto di Jorge Luis Borges. Averroè annota sul manoscritto: “Aristù, chiama tragedie i panegirici e commedie le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie, abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del Santuario”.Come fa notare l’autore, la difficoltà di Averroè, non è di natura linguistica, ma è data dalla mancata conoscenza della pratica teatrale, inesistente nel mondo islamico. Da qui la sua difficoltà di comprendere l’uso del testo teatrale e di distinguerlo efficacemente da un qualunque testo letterario. L’evento teatrale, infatti, per definizione, non può essere “letto”; è un accadimento, che prevede necessariamente solo attori e spettatori. Per il teatro il testo è un elemento “accidentale”. Come si è passati dunque a considerare il fatto teatro, come un genere letterario? E questo passaggio è davvero avvenuto?
Come si legge un testo che è costruito (o decostruito, o costruito a più mani per essere agevolmente smontato e rimontato nel momento della rappresentazione) per la creazione di un accadimento irripetibile, di un qui e ora, composto da attori, voci, scene, scenografie e abitudini sceniche e che è intrinsecamente legato alla sua epoca, ad un preciso contesto socio-culturale? I dieci scritti proposti, suggeriscono che non vi sia una sola modalità corretta. Il lettore che si approcci al testo teatrale dovrebbe in primo luogo aver ben presente che quel testo, appunto, non è un testo letterario. Certo, è la forma stessa dello scritto a rendere impossibile la confusione. Ma è necessario che il lettore sia avvertito della necessità di indagare l’uso del teatro dell’epoca e le prassi sceniche e sia consapevole che il testo che sta leggendo, potrebbe essere molto lontano dal “presunto” autore e non essere mai stato davvero “compiuto” per la lettura.
I lavori riportati sono un esempio perfetto di quale grado di cautela e consapevolezza sia consigliabile adottare per leggere un testo teatrale, e suggeriscono approfondite e sorprendenti chiavi di lettura per altrettanti “Testi esemplari”.
Si pensi all’Amleto di Shakespeare: opera teatrale per eccellenza, il cui protagonista è diventato un simbolo universalmente utilizzato per rappresentare il prototipo dell’attore sulla scena.
Ripercorriamo le notizie e le proposte di lettura fornite dall’autrice del saggio dedicato a questa opera: Sandra Pertini. L’accorto lettore dovrà considerare che, a differenza di Čechov, che abbiamo visto nell’intento di “dirigere” con apposite lettere la migliore messa in scena del suo testo, Shakespeare non mise mai compiutamente per iscritto le sue opere, era un “letterato – teatrante”; costruiva con gli attori la rappresentazione, in teatro, scena per scena. Il lettore si aspetterà di incontrare, leggendo, il tormentato personaggio tragico: l’ icona dal candido colletto elisabettiano ammantata di nero. Ma l’autrice ripercorrendo la complessa e secolare vicenda delle traduzioni dell’opera ci riconduce ad un diverso Amleto. L’eroe della vendetta –la più feroce affermazione di onore e gloria – arriva ad affermare come per la guerra ventimila uomini corrano verso la morte “per un capriccio ed un inganno della fama” (atto IV, sc. 4). Ossessionato dalla gelosia e dall’odio per la madre, bistratta la sventurata Ofelia rivolgendole parole ingiuriose e battute dalle pesanti allusioni sessuali (atto III, sc. 1). Il principe di Danimarca disprezza sé stesso come inetto, codardo, incapace di agire. E’ consapevole del proprio eccesso di pensiero: “Mio Dio, potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re di uno spazio infinito!” (atto II, sc. 2). Germina in lui la moderna idea per cui il mondo è innanzitutto nella nostra mente, e questo eccesso di elucubrazione diventa il motivo della sua inazione e della sua inettitudine; Amleto osserva il mondo con distacco materiale; lo considera un palcoscenico di cose vane.
Questo personaggio modernissimo, bloccato nel pensiero, vivo solo delle proprie fantasie, che indugia sulla morte senza adornarla di alcuna possibilità consolatoria, influenzato dalle alterne fortune dell’opera Shakespeariana, verrà consegnato alla storia subendo cambiamenti profondi e radicali, pesantemente adattato al gusto delle varie epoche.
I grandi attori italiani del 1800, compirono la trasformazione finale, espungendo qualsiasi riferimento al crudo materialismo shakespeariano, qualunque richiamo comico e licenzioso, consegnandoci la figura del personaggio tragico che conosciamo.
Esempio violento di “tradimento”, nel passaggio (compiutosi nel corso dei secoli) tra l’opera teatrale e l’opera letteraria.
Nel gioco della traduzione, del passaggio tra testo e scena, del rapporto tra autore, attori, maestranze, scene e pubblico, “Sei personaggi in cerca di autore” di Luigi Pirandello costituisce un momento di vertigine assoluta, sapientemente riproposta da Luigi Allegri nel saggio dedicato a questa opera.
“Ma ecco in che consiste la soggezione inovviabile del teatro, rispetto all’opera d’arte che ha già avuto la sua espressione definitiva, unica, nelle pagine dello scrittore. Questa che è già espressione, questa che è già forma, bisogna che diventi materia: una materia a cui gli attori, secondo i loro mezzi e le loro capacità, debbono a loro volta dar forma”. Nel brano, tratto da “Teatro e letteratura” del 1918, Pirandello esprime la propria concezione della scena come una degradazione dell’ “opera d’arte” rappresentata unicamente dal testo. Guidato da questa insoddisfazione, l’autore immaginerà di condurre il testo alla scena senza mediazioni, senza l’avvilente contrattazione con gli attori, le scene, le assi del teatro. Eccoli i Personaggi che si presentano da sé sul palco riversando negli spettatori, senza traduzione alcuna, il mondo dell’autore. L’indignazione, l’impotenza, l’incapacità degli attori e del capocomico, che vorrebbero affermare la loro posizione come più degna di quella degli stessi Personaggi, risalta nelle loro battute astiose, nei deludenti arrangiamenti scenici proposti, nel bigottismo e nella censura continua rispetto alla richiesta dei Personaggi, angosciosa e perentoria, di rappresentare “il Vero”.
E dunque, tornando alla domanda che provocatoriamente pone il curatore del volume, ha senso leggere il teatro? E’ un’azione possibile?
La risposta provocata è di senso positivo. Leggere il teatro si può e si deve e lo dimostrano le proposte di indagine ed esplorazione contenute nel testo, consigliate ad un pubblico che desideri, ancora, perdersi nella scoperta di percorsi non immaginati e lasciarsi ri-conquistare dalla infinita ricchezza di questi “Testi esemplari”.
Dal dichiarato intento didattico, la raccolta di dieci saggi, che non sacrifica la piacevolezza dello stile al solido impianto teorico, resta di sicuro interesse per tutti coloro che il teatro lo amano e, come l’autore, si interrogano sulla difficoltà (sulla possibilità, forse?) di penetrare compiutamente nei testi teatrali senza inciampare nel “già pensato” e nel “già saputo”.
COME SUGHERI SULL’ACQUA
MIGRAZIONI
di Ariele D’AMBROSIO
https://www.bookeditore.it/libri/migrazioni-di-kadhim-jihad-hassan/
Ora non è vero che per viaggiare sia necessario il movimento
Comincio come sempre dalla copertina: elegante, raffinata, il colore è bordeaux, caldo, sobrio, che bene si armonizza col colore giallo del titolo e della cornice di uno splendido acrilico su tela di Jaber Alwuan: una figura solitaria che in un paesaggio innevato cerca di raggiungere un luogo, si spera abitato, verso un orizzonte dal cielo plumbeo. E l’emozione, e il tempo che mi lascia è quello della lentezza, della speranza, non quello della paura e dell’angoscia. È il tempo dei ricordi né sbiaditi né lievi, ma quelli su cui le riflessioni si sono pacificate in una tenerezza costante che ha permesso l’arrivo. Ecco già questo è un tema che ho colto leggendo le pagine gradevoli di carta ruvida dal tipico odore accogliente.
Tre nomi in questo libro: Kadhim Jihad Hassan, André Miquel, René Corona, e ci troviamo nella cultura alta come si apprende nel risvolto di sinistra, a pagina otto, a pagina centodiciannove. Solo qualche cenno: Kadhim Jihad Hassan iracheno, è poeta, saggista, traduttore e docente presso il Dipartimento degli studi Arabi dell’INALCO di Parigi, André Miquel francese, è stato docente universitario, storico e arabista presso il Collège de France e per l’Accademia delle Scienze di Heidelberg, René Corona nato a Parigi e di cittadinanza italiana, è docente di Lingua e Traduzione francese presso l’Università di Messina.
Messina, città della nostra Sicilia tra Oriente e Occidente, per un abbraccio tra due mondi, finalmente vero e sincero, in questo tempo di orrori. E non poteva essere che con la poesia: antenna e guardiana attenta, catalizzatrice del desiderio e dell’esigenza dell’umano. Ma subito entro nel vivo di questa scrittura e lo stesso poeta Kadhim ci dice del poeta e della poesia: «… E la poesia, anche per noi, opera di utilità pubblica era, contemporaneamente, sostanza per virtù interpersonale e curativa. …», «… Se il poeta ferito si assenta, o voi cari compagni, perdonatelo. Nel tempo ritrovato vede i vostri visi. Il lampo li illumina. …», ed ancora, «Il poeta si siede al suo tavolo / E appena traccia una parola sulla pagina bianca / Il fervore di una folla di popoli / Scorre e accorre nelle sue vene. / … / Il poeta si siede, solo, davanti al poema.», «… alla tosse che s’innalza nei corridoi dell’anima, alla risata senza motivo, al pianto che nulla spiega, in tutto ciò si riconosce l’avvento della poesia. Colui che ignora queste commozioni e pretende di scrivere come respira, è soltanto un verseggiatore o uno scriba. Un poeta ha forse mai saputo verseggiare?», «Aspiro al silenzio / E troppo spesso cancello le mie pagine / Tutto ciò che scrivo è destinato alla cancellatura / Nell’attesa di un’unica parola / Che per la sua pienezza fungerà da tutto. …».
Un libro per settantanove composizioni, poesie in forma prosastica che si alternano a quelle tipiche in forma lineare. Siamo di fronte a traduzioni, che ripeto ogni volta preferisco chiamare trascrizioni per altro strumento, e non mi attarderò su analisi di testo, solo una piccola chiosa sul fare poesia in forma di prosa e lontano da definizioni accademiche che da Charles Baudelaire ai giorni nostri, hanno scandagliato questo genere. Quale la differenza dalla narrativa? Il racconto, in questo caso, è quasi sempre in forma frammentaria, segmentata; il dato emotivo, anche della riflessione, sopravanza sempre ad una descrizione lineare, quella della narrativa, che sembra indirizzare ad un inizio che deve condurre ad una fine; storie a lampi e bagliori tra baluginii di memoria; la “staticità” di una scrittura incisa sulla pietra per chi percorra quella strada e la scorga; frammenti a flash che rimandano a zone con retrocessioni e avanzamenti, ritorni, mentre tutto si mescola per rimescolarsi. Ma il filo non si perde.
Leggo a pagina dodici e trascrivo: Alcune poesie sono state scritte direttamente in francese, altre sono state tradotte in quella lingua dall’autore stesso a partire da una prima versione in lingua araba. In italiano, sono state tradotte partendo da una versione eponima dell’autore, tranne l’ultima poesia, “Reinvertarsi la campagna”, qui tradotta da una versione inedita di André Miquel. Dobbiamo quindi ad René Corona l’italiano; e le varie traslazioni, in nuove lingue e nuovi suoni, alla capacità bilingue di queste persone colte e virtuose.
Per questo motivo, solo un piccolo rammarico: avrei voluto il libro spesso tre volte per l’arabo e il francese a fronte, e non perché sono in grado di leggere e capire queste lingue, ma solo per il fascino e lo stupore che provo guardando grafemi diversi di cui non conosco i suoni, guardandoli come disegni misteriosi che mi portano lontano nei significanti emotivi del vedere, e per fantasticare su ritmi ed accenti, assonanze e rime, e stupirmi su una piccola onda di serpente o curva con puntino.
Il titolo che ho dato al mio intervento, estrapolato dalla poesia Gli amici, non confligge col titolo della raccolta, perché è dopo l’attraversamento di una migrazione che si comincia veramente a viaggiare stando fermi. Perché questo, sarà il tempo delle riflessioni e dei ricordi, delle emozioni che si rincorrono in mulinelli senza sosta. E con Per una presentazione, bene ci fa entrare in questo mondo e in questo tempo René Corona dicendoci di Kadhim Jihad Hassan: … Siamo nell’epoca moderna del potere bassista e di Saddam Hussein e vediamo un adolescente che aspira all’indipendenza e alla libertà, e la cui unica scelta è quella di partire, lasciando con dolore e tristezza affetti cari. Lasciando padre e madre senza sapere se li rivedrà un giorno. … Quindi, tra Germania, Italia e Spagna l’approdo a Parigi, dove il nostro poeta diventerà professore universitario, saggista e poeta. Ma poeta lo è sempre stato. … Quel dolore profondo che la fuga ha tracciato dentro di lui sapendo che quasi sicuramente non avrebbe rivisto i suoi familiari, e con solo la presenza dei morti, onnipresenti nelle liriche, come portatori di un viatico per procedere sulla buona strada mostrandogli la giusta direzione. Gli Dei Penati di un tempo, per gli archetipi di Carl Gustav Jung che l’essere umano fabbrica uguali dai tempi e dagli angoli più remoti della terra.
«… Quando avrà luogo lo sfracello? E come sarebbe piacevole che l’asfalto mantenesse tra noi quella distanza che ad un tratto mi pare infinita!» da Suicidio; «La camera dà sul vuoto. Per conoscere i miei eventuali vicini, devo attraversare abissi invalicabili. Aggiungo la mia timidezza alla grandezza dello spazio. …» da Una camera (1); «… La vita, tu l’affrontavi con un sovrappiù di vita. E quando il temporale tuonava, quante volte sei andato a mietere con nell’anima una nuvola grossa come l’universo?» da Una camera (2); e questa Ritratto di mio padre da giovanotto la trascrivo per intero «Tornava a casa, ossessionato dalla sua disfatta, l’animo abitato da promesse non mantenute e contratti che non erano stati onorati. Non amava lamentarsi. Non amava riconoscere il fallimento. Appassiva nell’aridità dei suoi giorni. Ma il suo viso brillava di una luce di cui nessuno sospettava la provenienza. Lui solo ne conosceva il segreto: sua madre cantava a lungo per lui bambino. Diceva che lo addormentava negli abiti del canto. Con la sua voce incantatrice, lei gli aveva ricamato quello scudo, quello scudo solido con il quale si sarebbe protetto nel più cupo dei suoi giorni.». E mentre leggo ho il poeta che mi sta vicino e mi racconta e mi commuove, perché lo sento amico e fratello e mi dice che c’è sempre qualcosa o qualcuno che ci protegge anche quando ci si sente soli: la fortuna di buoni genitori che hanno saputo abbracciare e baciare.
Ringrazio René Corona per questo splendido e complesso lavoro che mi ha dato l’opportunità di conoscere questo splendido poeta. Ma c’è da dire che solo un poeta può tradurre un poeta. E ne approfitto per attardarmi un momento sull’importanza della traduzione. Prendo a prestito quanto detto da Alberto Manguel: Nel Medio Evo, la parola “translatio” indicava lo spostamento delle reliquie di un santo da un luogo a un altro: traduzione quindi come dislocamento, … traduzione come movimento, traduzione come emigrazione. Quale coerenza col titolo di questo libro e di quanto avviene in questo libro. Ed ancora Al pari di chi trasporta reliquie, i traduttori spogliano il testo del suo aspetto esteriore e lo trapiantano nel terreno della propria lingua. Il nuovo contesto trasforma e preserva il testo, rivestendolo di una nuova pelle: traduzione come metafora. Metafora in greco e traduzione in latino sono la stessa parola.
Quindi direi Traduzione come Trascrizione per altro strumento, ed anche come Traslazione, Dislocamento, Trapianto, Movimento, Emigrazione. Per tale motivo siamo grati a René Corona che ha lavorato a questa notevole complessità, traghettando significati e significanti per una rinnovata identità, che ne salva la perdita sempre in agguato per chi è costretto a sradicarsi dalla propria terra alla ricerca di un nuovo tetto, di una possibile stanza che lo protegga.
Vengo da Israele, nel senso che la mia ultima recensione è stata per il poeta Dahlia Ravikovitch, e sono felice di approdare nella terra araba costretta a soffrire per sua colpa e colpa di altri, felice di approdarvi per dire che i poeti, quelli veri, appartengono al mondo dell’umano, per stare insieme, dissentire insieme contro la protervia, la violenza, la malvagità, l’ignoranza, la volgarità di dittatori e dittature. Contro la trivialità anche dei versificatori che riempiono la loro bocca del nulla o della convenienza: «… Perché lo sai, la patria non ha potuto contenere le tue folli visioni. Avresti saccheggiato la saggezza dei benpensanti. Quella patria che per te si riassumeva in un pomeriggio pieno di allucinazioni e un pugno di ravanelli che rimasticavi prima di ruttare tutto il giorno, ridicolizzando come un giovane Rimbaud le rime dei versificatori.».
Da Sud «… Sono l’orfano di tutti i bambini morti / Cadaveri che galleggiano sull’acqua / Conosco il gusto indefinibile del polline. / E so il profumo che generano le rose / Una voluttà tinta di vertigine. / Conosco le terre aride / E quelle che sono coltivate un anno su due. // Come un’arancia in fondo all’acqua / Riposa in me il Sud. / Senza di lui vado avanti nel mondo / Amputato di una parte di me stesso / Probabilmente la più bella.».
La mia meraviglia è quando i poeti s’incontrano, e m’incontrano nella memoria di quando mio padre mi recitava Quasimodo, poeta siciliano: … Oh il Sud è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria, / è stanco di solitudine, stanco di catene, / è stanco nella sua bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi, / che hanno bevuto il sangue del suo cuore. Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti, / Costringono i cavalli sotto coltri di stelle, / mangiano i fiori d’acacia lungo le piste / nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. / Più nessuno mi porterà nel Sud. … .
Un’altra migrazione per strade che s’intersecano, si agganciano, si cercano, ed ancora è la sofferenza per tutto ciò che è diventato nostalgia, con la tristezza delle ingiustizie, delle verità negate ed occultate, «… È una vaga malinconia / che porta la sua mente / a srotolare, in una dolcezza senza uguale, / le immagini dell’infanzia. …», e «… La sua mèta non sta nell’arrivo / Strada facendo egli si costruisce una madrepatria / Senza guerra / E nei suoi passi acquisisce un’identità / Che non conosce la divisione …».
Continuerei così, ancora senza sosta, per questo dire che diventa un canto che amplifica i sistemi della percezione e mi fa insieme a chi ha scritto per essere con lui nel ricordo, in quel dolore che non è solo lo strazio di un distacco, ma anche quello dolce e tenero di una meta e di una speranza.
«… Mio padre manda fuori il fumo della sigaretta / e ne segue le volute / per lui si tratta di scrittura celeste / che condensa in una lingua particolare / gli enigmi rimasti / come segreti dell’essere.».
Napoli ottobre 2024