Gennareniello, l’altro Eduardo di Musella e Taiuti

Tonino Taiuti, Lino Musella -ph©Pino Miraglia

di Antonio GRIECO

Rappresentato per la prima volta nel 1932, Gennareniello, l’atto unico di Eduardo in scena (dal 20 dicembre al 5 gennaio) al Teatro San Ferdinando di Napoli, per la regia di Lino Musella, fu inserito da Eduardo nel gruppo di commedie cui diede il nome di Cantata dei giorni pari, alludendo probabilmente con questo titolo ad una comunità “pacificata” che non aveva ancora perso la sua originaria innocenza. Insomma, in questo ciclo di opere non saremmo di fronte a quella drammatica realtà del dopoguerra che aprì una crisi profonda in quel microcosmo familiare che Eduardo ci mostra sempre sul punto di deflagrare all’interno di una più generale deriva consumistica del nuovo corpo sociale. Se questo è vero, col Gennareniello di Musella siamo però spinti a credere che già nel primo ciclo di opere eduardiane si possono, in filigrana, scorgere i primi segnali di un processo disgregativo delle nostre comunità che dal nucleo familiare tenderà poi sempre più ad espandersi, sino ad interessare un più vasto territorio umano e sociale. Il regista, infatti, scartando un innocuo (e purtroppo abusato) approccio formalistico (e imitativo) di quel teatro, ha guardato a questo testo come da un microscopio che ci permetta di riconoscere le più recenti incrinature di una mutazione antropologica che interessò il nostro Paese agli inizi degli anni Ottanta dello scorso secolo. Per consentirci appunto di cogliere quanto “lo sguardo lungo” del nostro grande Maestro sia sempre contemporaneo anche in un altro tempo della Storia, Musella sposta intelligentemente l’azione di Gennareniello in un anno emblematico, precisamente il 1984, quando Eduardo scompare e la società napoletana (non diversamente da quella del resto del Paese) sembra percorsa da una nuova, travolgente destrutturazione che sembra ancora una volta partire dall’istituto familiare. É chiaro, dunque, che la storia di Gennaro – nella sua stessa infatuazione per Anna Maria, la giovane e affascinante ragazza che dalla finestrella della sua camera si affaccia sul terrazzino comune dove sua moglie Concetta (interpretata da una misuratissima e brava Gea Martire) fa il bucato, sua sorella Fedora dipinge tutta la giornata nature morte di ciclamini e Tommasino  (parente stretto del Nennillo di Natale in casa Cupiello, magistralmente interpretato da Musella) chiede continuamente qualcosa da mangiare alla sua arrendevole e tenera madre  – sembra quasi un pretesto per evocare una comunità che vive in una nuova realtà seguendo antichi codici patriarcali di cui non riesce sino in fondo a liberarsi. Va detto, però, che proprio quando tutto sembra naufragare, ritroviamo quella perduta armonia familiare per l’istinto materno di Concetta, che infrange la regola non scritta della “sottomissione della donna” (nel vecchio come nel nuovo mondo), difendendo suo marito, geniale inventore di “strambi ritrovati”, dal giudizio irridente e ipocrita di alcuni personaggi come Matteo, ospiti abituali della sua casa. Accettando di riaccoglierlo in casa così com’è, con le sue debolezze, senza giudicarlo; alla fine, tutto sembra ricomporsi intorno a lui, che vive nel ricordo di un tempo trascorso che non potrà mai più ritornare. Ma davvero, viene da chiedersi, siamo di fronte ad una ritrovata unità familiare, o, invece, come in fondo sembra suggerire  Musella,  le ferite di quella apparentemente tranquilla comunità che anima quel terrazzino ubicato all’ultimo piano di  un vecchio (e precario) palazzo del centro storico – ancora ingabbiato dai tubi innocenti dell’ultimo recente sisma che ha devastato intere zone della città – resteranno in qualche modo aperte e le vedremo riaffiorare, in forme diverse, già nei tre atti di Natale in casa Cupiello o in Sabato, domenica e lunedì ? Stiamo dunque attenti, sembra  ancora affermare il regista, a “leggere” Eduardo – anche quello de la Cantata dei giorni pari – secondo una idea farsesca o naturalistica della sua scena: un  concetto, questo, a ben pensarci, già chiaro dall’inizio, quando, nel prologo dello spettacolo, egli riprende l’ultima, illuminante lezione di Eduardo (tenuta nel 1983 a Montalcino), in cui, dopo aver sottolineato che la morte coincide con l’inizio, il grande autore attore ci dice anche che a teatro occorre partire sempre dalla tradizione, anche per innovarla radicalmente “dall’interno” dando così vita a un nuovo immaginario drammaturgico. E Gennareniello, in fondo, di questo “assioma” eduardiano ne è in qualche modo la dimostrazione. Perché qui, al realismo dell’ambientazione scenografica e al richiamo di una antica tradizione teatrale napoletana, si contrappone,  sottotraccia, una critica radicale ad una società ormai sempre più omologata, sempre più schiava dei media e del consumismo imperante, di cui un chiaro, inequivocabile segno è quella televisione sempre accesa (che ci informa, tra l’altro, dell’arrivo gioioso di Maradona a Napoli) nella piccola camera di Anna Maria, la bella ragazza che fa illudere “l’anima sensibile” di Gennaro, ormai in età avanzata, facendo ingelosire Concetta con i suoi baci innocenti e costringendolo, indignato, all’abbandono del tetto coniugale; o quelle antenne televisive che irrompono in alto tra i tetti delle abitazioni dei quartieri più popolari della città. Ma se vogliamo, da questa angolazione autoriflessiva della commedia ancora più emblematica è l’ultima scena, che ci mostra Gennaro immobile, ridotto a un fantoccio in balìa di spregevoli figuri; una scena davvero emozionante, straordinaria, per merito soprattutto del grandissimo Tonino Taiuti che riesce qui, con lo sguardo perso nel vuoto e col suo straziante silenzio, a fondere la lezione dei grandi sperimentatori  teatrali e artistici del Novecento – da Beckett ai pittori surrealisti come Magritte, da Carmelo Bene a Enzo Moscato – con la nostra più alta tradizione drammaturgica. Ed è così, con questa memoria attiva del suo sguardo che Eduardo vive ancora tra noi e, partendo da un semplice vissuto quotidiano, continua a parlarci, ad esplorare la nostra più intima, sofferta e confusa condizione umana. Bravissimi tutti: da Gea Martire a Roberto De Francesco, da Ivana Maione a Dalal Suleiman, da Alessandro Balletta a Daniele Vicorito; le scene, molto realistiche e ben curate, sono di Paola Castrignanò, i costumi di Ortensia De Francesco; disegno Luci, Pietro Sperduti. Spettacolo imperdibile.