“Sono viva per miracolo”, un interessante spettacolo sulla oppressione e la solitudine della donna nell’era digitale

foto di scena Marco Sommella

foto di scena Marco Sommella

di Antonio GRIECO

Ha debuttato in Sala Assoli – Moscato Sono viva per miracolo, un lavoro di Adolfo Ferraro splendidamente interpretato da Antonella Morea 

Si ha sempre più l’impressione che nell’era digitale, la solitudine, l’isolamento, il senso di angoscia, siano   cresciuti in modo esponenziale in tante parti del nostro mondo. Eppure, pensavamo che con la postmodernità tutti saremmo stati più liberi. Invece, i conflitti deflagrano un po’ dovunque, ed è forse sulla donna che possiamo scorgere meglio i segni più brutali e irreversibili che genera questo nuovo corso della umanità funestato da guerre, fame, miseria, ingiustizie sociali planetarie, tornato in un battibaleno al suo stadio primitivo. Sono viva per miracolo, un testo-monologo, scritto e diretto da Adolfo Ferraro ed interpretato magistralmente da Antonella Morea alla Sala Assoli – Moscato (il 18 e 19 febbraio), ci ha profondamente colpiti soprattutto perché, indirettamente, sembra alludere a tutto questo terrificante, distopico scenario globale.  Al centro di una scena surreale – una gabbietta con l’uccellino, un mobiletto bar di vecchio stile, un attaccapanni, poche luci, dipinti alle pareti che rinviano agli enigmatici volti di Mimmo Paladino – Marina, la protagonista della pièce, ci parla del suo vissuto, in un mondo, per dirla con Shakespeare, “fuori di sesto”, da cui ha dovuto difendersi per tutta la vita (“io sono viva per miracolo”, continuerà ossessivamente a ripetere). La donna, di mezza età, vive in un’abitazione-rifugio, dove l’unico rapporto col “mondi fuori”, con cui è in perenne conflitto, è col suo amico Lello, il suo assistente vocale (una specie di ultramoderno robot casalingo che risponde a tutti i suoi ordini e col quale riesce ad instaurare una affettuosa amicizia): una presenza però che da rassicurante si trasformerà, col tempo, in un costante pericolo per la sua stessa stabilità emotiva. Solo l’amore per l’uccellino l’accompagna in questo suo triste chiudersi in sé, tra le asfittiche mura di una camera, che fa pensare a qualcosa di più grande con cui facciamo tutti fatica a misurarci. E alla sua morte, alla morte del suo amato uccellino, ciò che era in ombra appare ora più vero, meno illusorio, più autentico. Da questo momento in poi, infatti, Marina, impiegata per molti anni in un ufficio pubblico, si mostrerà in tutta la sua nudità e fragilità esistenziale: quasi che la sua disperazione (“io sono sola, sono sempre stata sola”, grida disperata), sia, in fondo, nient’altro che il riflesso di quella assoluta verità nascosta nel suo subconscio. La donna, al centro della scena, parla della sua vita con leggerezza, alternando stati allucinatori a momenti di “grazia”: come quando danza, libera e felice, sulle note di “Quizas Quizas”, il famoso brano musicale scritto dal compositore cubano Osvaldo Ferrès e portato al successo da Nat King Cole.  Ma, alla fine, a prevalere sarà ancora una volta l’angoscia, l’abbandono di sé, mentre l’assalgono i fantasmi del suo passato che non hanno mai smesso di tormentarla: le violenze di cui è stata vittima da bambina, lo stupro subito da un suo zio in età adolescenziale, la morte della madre, che le è sempre stata molto cara e vicina. Allora tutto diventa più chiaro della infinita solitudine di Marina.  Il suo “inferno”, la causa del suo alterato stato psichico, sono gli altri, quella comunità senz’anima che non l’ha mai accettata e accolta con amore nel suo grembo. Nessuna speranza, nessuna pace è possibile con quella realtà ipocrita e illusoria che entra nella sua esistenza solo attraverso le insistenti chiamate telefoniche di oscuri personaggi che ad ogni ora del giorno propongono nuove offerte di acquisto di questo o quel prodotto. No! Marina, ossessionata dai suoi demoni, è sola, senza alcuna possibilità di rinascere dagli incubi del suo triste vissuto. Lello (la voce è di Renato de Rienzo), l’assistente vocale da lei tanto amato, lo sa. E decide, alla fine, di assecondare questo suo desiderio di pace uccidendola col gas. Al termine di questo intenso, drammatico monologo sorgono, quasi spontaneamente, alcune domande sul processo autodistruttivo della protagonista. Prima fra tutte: l’estrema marginalità umana e sociale di Marina, non è forse l’emblema di una storica, arcaica violenza dell’uomo sull’universo femminile e, insieme, il riflesso di una società malata dalle sue fondamenta? E ancora: è proprio vero che in questa era digitale (e con l’utilizzo sempre più diffuso ed “estremo” dell’intelligenza artificiale) saremo tutti più liberi? O, al contrario, la sua presenza costante nella nostra vita (simboleggiata qui da quell’assistente vocale che appare come un amico fedele sempre pronto a soccorrerci nei momenti di difficoltà), sempre più autonoma, sempre meno dipendente dalle nostre decisioni, può rivelarsi in futuro solo una ulteriore forma di oppressione, non meno pericolosa di quella esercitata dal controllo sistematico da parte del potere socio-politico globale? La pièce di Ferraro si fa apprezzare non solo per questi interrogativi che, in filigrana, l’attraversano dall’inizio alla fine, ma anche per la splendida prova attoriale di Antonella Morea, che anche in questo spettacolo si conferma attrice forte ed intensa. Ottime le scene di Tata Barbalato -recentemente scomparso- la costruzione musicale di Lino Vairetti, le luci e il suono di Vincenzo Grieco – Teresa di Monaco, la “voce” di Renato de Rienzo.