IO, NESSUNO E POLIFEMO – di Emanuela Ferrauto

IO, NESSUNO E POLIFEMO
Non possiamo subito cominciare con la banalità della storia del mito classico, della Sicilia, della tradizione dialettale. Non parliamo di confronto tra passato e presente, di folklorico ricordo della terra delle origini. Non pensiate di rivedere in scena la parola di Omero riadattata sulla scena contemporanea. Non immaginiate minimamente tutto questo perché rimarreste delusi. Così come una parte di pubblico. Così come la sottoscritta. Bisogna ammettere che l’osservazione di alcuni spettacoli di Emma Dante, e la conoscenza dell’Iliade di Omero, rendono lo spettatore prevenuto. Cerchiamo, dunque, di addentrarci nella mente geniale, ma anche contorta, dell’autrice-regista-interprete, perché forse solo così potremo comprendere a fondo questo spettacolo, apprezzandone alcuni elementi e rifiutandone altri. Il teatro Bellini di Napoli accoglie IO, NESSUNO E POLIFEMO, spettacolo di e con Emma Dante, in scena dal 3 all’8 febbraio. L’autrice da tempo mangia con gli occhi e divora con le parole la città di Napoli: mai connubio più possente tra la città partenopea e la riviera dei Ciclopi, in quel di Catania, avrebbe potuto creare se non attraverso questo spettacolo. Il tutto calza a pennello per una siciliana trapiantata a Napoli che scrivendo, cerca incessantemente di scavare a fondo in questo spettacolo. Il titolo dimostra la presenza scenica di tre personaggi, in cui l’Io citato è l’autrice, Polifemo e Nessuno li conosciamo già attraverso la splendida parola di Omero. I tre indossano gli stessi abiti: dunque, come si fa a pensare che siano davvero Polifemo ed Ulisse? “Madama Pace” entra dalla platea, ma stavolta non si tratta del personaggio pirandelliano che cerca l’autore, bensì è l’autore stesso che va alla ricerca delle sue idee. E quali mai potrebbero essere se non quelle radicate nella cultura d’origine e nel rifiuto della stessa? Non corriamo troppo.
La scena è complessa. Ricordiamo che lo spettacolo è andato in scena al Teatro Olimpico di Vicenza, ambiente pre-costruito, a cui ogni prodotto artistico, che viene ospitato su quel palcoscenico, cerca necessariamente di adattarsi. Fondale imponente ed imposto, l’Olimpico è un’arma a doppio taglio. Il teatro Bellini presenta una triplice scena (anche quadrupla se si considera l’utilizzo meta teatrale della platea da cui entra trionfalmente l’autrice), ricordando forse la prospettiva e la successione di piani che è evidente sulla scena del teatro vicentino. Ma quello che incuriosisce, al di là delle corde, dei fondali, della postazione dei fonici da palco – verandina bianca prominente sul laterale della scena ed esposta al pubblico –  è che i protagonisti recitano in proscenio, avendo dietro un altro palco, e sullo sfondo una città in trompe l’oeil. Insomma ci siamo addentrati nella caverna del Ciclope, che sta in fondo, o meglio nel profondo, mentre il resto del mondo sta dietro, immagine disegnata e finta. La sensazione è quindi che anche lo spettatore in platea sprofondi ulteriormente. “L’andare a fondo” di cui parliamo è il meccanismo verbale che innesca l’autrice, attraverso un’intervista impossibile ai due protagonisti dell’Iliade: l’uno detentore del mito e cardine della sconfitta affinché l’eroe emerga prepotentemente – e in questo Omero era abile perché la storia non è epica ma comunque deve avere dei vincitori e dei vinti certi -, l’altro, invece, viaggiatore speranzoso e curioso. Ciò che emerge subito è la lingua utilizzata: Polifemo ed Ulisse, quest’ultimo incessantemente chiamato Odissèo, secondo l’utilizzo più popolare dell’accento, parlano in napoletano. Ecco dunque che sale il mormorio dalla platea, il pubblico si accende, si illuminano gli occhi. Pubblico napoletano e siciliana seduta in mezzo. E adesso come la mettiamo?  Ironia e campanilismo a parte, dobbiamo dire la verità. Emma Dante ci presenta un viaggio nella sua idea di teatro, che non è spettacolo ma è ben altro, citando lei stessa le parole di Carmelo Bene.  L’antro-caverna del Ciclope altro non è che la mente umana che scava a fondo e che vuole conoscere, che non accetta l’ovvietà. L’autrice viaggia, come Ulisse, nel profondo della sua mente e ciò che trova è il racconto mitologico sedimentato nella sua natura siciliana, ma si imbatte anche nella cecità metaforica del Ciclope. La pietra che serra la sua caverna è la sua palpebra: mai definizione più bella per indicare l’ignoranza e i luoghi comuni, basti pensare alla descrizione di un Ulisse “guappo” e dongiovanni, interpretato da Carmine Maringola, che continua a prendersi gioco del povero Ciclope. E proprio quest’ultimo, interpretato da Salvatore D’Onofrio, improvvisamente comincia a parlare in dialetto siciliano (pur con sonorità napoletane!): la bestialità viscerale e la sedimentazione originaria emergono nel racconto dello sbranamento dei compagni di Ulisse, piccole marionette di legno che nelle mani dell’attore lo trasformano, agli occhi dello spettatore, in gigante.  Il concetto del ricordo è fondamentale affinché nulla diventi polvere, ed è un discorso che va al di là dell’allestimento scenico, del dialetto, delle origini. L’ironia irriverente della Dante ci fa riflettere: perché mai il Ciclope ed Ulisse non avrebbe potuto parlare in napoletano? Sono immagini omeriche, sedimentate nella cultura atavica, ma utilizzate come simboli di un ragionamento più profondo. E sedimentazione culturale è anche il riferimento ad Eduardo e a “Natale in casa Cupiello”, e quindi è ovvio che i due protagonisti omerici napoletanizzati ne facciano menzione. Così come qualsiasi altro riferimento avrebbero potuto fare se fossero stati “naturalizzati” in altro dialetto. Emerge, tra le righe, la critica alla critica teatrale, che taccia Emma Dante di dialettalismo esasperato. Quello che non convince è invece la recitazione macchiettistica dei due protagonisti, che sì, fa ridere il pubblico napoletano alle battute e ai modi di dire prettamente partenopei, ma che non si amalgama con le altre parti narrate o propriamente declamate. Insomma, si sta conducendo un’intervista immaginaria, che linguaggio utilizzare? Colloquiale, narrativo, o puramente recitato? Quest’alternanza confonde e rende poco omogeneo il discorso. Probabilmente anche il macchiettismo esasperato, così come le movenze, rappresentano i luoghi comuni della cultura partenopea, la “cecità” di cui sopra. E il velo che si spande sui corpi delle tre ballerine, Federica Aloisio, Giusi Vicari e Viola Carinci, dall’ottima performance (anche se il piccolo cameo recitato da  una di loro non convince ed appare superfluo), coro tragico che da fa collante visivo e simbolico tra le varie parti, diventa occlusione della vista e della verità. Del resto, Penelope utilizza una tela per occultare la verità e rimandarne la scoperta, e la scena, tra musica e ballo, caratterizzata dalla” tela-onda del mare” è molto intensa ma eccessivamente lunga e ripetitiva. Un grande plauso è rivolto alla cantante palermitana Serena Ganci, voce sabbiata, che alterna il siciliano all’italiano e che riesce a sintetizzare dal vivo, con grande maestria, voci e suoni, creando momenti di particolare intensità. L’immagine conclusiva della conversazione con “ questi fantasmi” della mente si chiude con la frase: <<la polvere nun è niente, signo’. Nun tene nomme>>. E i due personaggi ritornano nell’antro, nel buio, nella mente, sul fondo del palco, luogo in cui si produce ma in cui il tempo e l’ignoranza oscurano tutto.  L’Io-Emma Dante rimane sul proscenio. Doppio palco, doppia scena, doppia immagine, fondo e primo piano, per dirla alla maniera filmica. Siamo doppi, siamo “maschera semantica”.
EMANUELA FERRAUTO

IO, NESSUNO E POLIFEMO
INTERVISTA IMPOSSIBILE

TEATRO BELLINI NAPOLI
3-8 febbraio 2015

di e diretto da
Emma Dante
con
Emma Dante
Salvatore D’Onofrio
Carmine Maringola
Federica Aloisio
Viola Carinci
Giusi Vicari

musiche eseguite dal vivo da
Serena Ganci

produzione
Teatro Biondo Stabile di Palermo