Harold Pinter di Lino Musella

contributi di Antonio GRIECO e Rossella PETROSINO

 Dalla parte dei vinti. Il Pinter politico di Musella 

di Antonio GRIECO

Sin dai suoi primi lavori ritenuto uno dei massimi esponenti del teatro dell’assurdo, Harold Pinter, in realtà, ben oltre la sua invenzione drammaturgica sempre sul filo di una ironica astrazione surreale, possiamo considerarlo un commediografo che come pochi altri è riuscito a tenere insieme, nel Novecento, una originale innovazione espressiva ed una chiara, consapevole, tensione ideale e politica.  Crediamo che sia stata questa la ragione principale dell’avversità di una parte non marginale dei media inglesi verso il suo teatro, che costituì una costante spina nel fianco di un potere oligarchico, violento, oppressivo. Parlò, a questo proposito, di amoralità della classe dirigente mondiale anche quando venne in Italia, nel 1993, per ritirare il “Premio Tevere”, in una illuminante intervista rilasciata con insolita disponibilità (egli era noto per i suoi reiterati rifiuti ad accettare qualsiasi dialogo con la stampa) a Cristiana Paternò per l’Unità (Faccio politica e me ne vanto, l’Unità, 3 ottobre 1993): «Quello che mi fa schifo, affermò, è la struttura del potere nel mondo. Il mio obiettivo principale sono gli Stati Uniti. L’appoggio che danno ai regimi in Centramerica, la guerra con L’Iran, il giorno dopo l’ultima rappresaglia contro Bagdad, un bombardamento in cui sono morte molte persone». 

 Questa lunga premessa per dire che ci è sembrato quanto mai opportuno il taglio “politico” che Lino Musella ha inteso dare al suo spettacolo Pinter Party (andato in scena al Teatro San Ferdinando dal 11 al 21 aprile) dedicato al drammaturgo inglese; una messinscena  costituita da tre testi di Pinter, Il bicchiere della staffa , del 1984, Il linguaggio della montagna, del 1988, e  Party Time, del 1991, intervallati da brani del discorso che egli pronunciò nel 2005 in occasione del conferimento del Premio Nobel. Si tratta di tre testi di Pinter, questi scelti con intelligenza da Musella, di sconvolgente attualità, soprattutto se volgiamo lo sguardo a ciò che sta oggi devastando tragicamente il mondo – dall’attacco russo all’Ucraina alla micidiale, scientifica distruzione degli israeliani, dopo il terribile massacro di Hamas, della Palestina, ai tanti altri conflitti sparsi nel mondo, di cui conosciamo poco o nulla.

 La prima domanda che sorge spontanea dopo aver letto quell’intervista ed aver assistito allo spettacolo del bravo attore e regista napoletano, riguarda il motivo che spinse Pinter a scegliere quella forma così diretta ed esplicita per denunciare un ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti d’America, da lui apostrofati senza tanti giri di parole come “i gendarmi del mondo”.  Non è semplice, a nostro avviso, rispondere a questa domanda, se non si tiene adeguatamente conto di quel profondo mutamento del quadro politico globale, su cui torneremo più avanti, che prese l’abbrivio con gli inizi degli anni Ottanta dello scorso secolo. Ma forse per capire la decisa scelta “antisistema” dello scrittore inglese potrebbe anche essere utile riandare con la memoria ad una delle più estreme avanguardie artistiche del Novecento: il Dadaismo.  Un movimento, che, come è noto, nacque nel 1916 a Zurigo in opposizione all’arte ufficiale, e che nel suo troncone berlinese scelse di manifestare apertamente, anche con la propria arte, il proprio dissenso nei confronti dell’ordine borghese: con la conseguenza che i suoi più noti esponenti, diversamente dai colleghi della diramazione francese, furono ferocemente perseguitati dai nazisti da poco padroni del Paese: «Avevo ricevuto lettere – ricorda il pittore George Grosz in fuga dalla Germania – che dicevano che m’avevano cercato nel mio vuoto appartamento di Berlino e nello studio. Avevo ragione di credere che m’avrebbero ucciso, se m’avessero trovato». (George Grosz, Una autobiografia, Milano, Sugarco Edizioni, 1984, p. 266). Sottolineando la scelta chiaramente “antiartistica” dei dadaisti tedeschi, vogliamo solo affermare che l’arte politica – da Piscator a Brecht per intenderci – è per sua natura “antagonista” e richiede talvolta l’abbandono dell’artificio per rendere quanto più incisiva possibile la propria posizione su le tante verità sommerse sotto le menzogne dell’ordine costituito. Per tornare invece ai tre testi di Pinter messi in scena da Musella per Pinter Party, si può sommessamente osservare che in fondo essi non sono altro, come accennavamo prima, che il riflesso, pur se in una imaginifica espressione allegorica, del più generale contesto politico che caratterizzò gli anni Ottanta del Novecento. Che sono stati, è bene non dimenticarlo, anni di sofferenza per milioni di uomini e donne: prima col Teacherismo che esaltò a dismisura il libero mercato, l’individualismo esasperato, il nazionalismo e la guerra (come quella per esempio delle Falkland), le privatizzazioni, colpendo con sempre più accanimento le fasce più deboli della società; e  poi con  il reaganismo che rilanciò su scala internazionale il potere militare degli Stati Uniti ( si pensi, al riguardo, alla “Strategic Defense Imitative” (indicata come “Guerre Stellari”); in anni più vicini a noi, sempre gli Stati Uniti d’America, certi della loro supremazia  anche in campo finanziario ed ideologico, hanno poi scelto di esportare in ogni angolo del mondo la loro idea di democrazia, falsificando, come è noto, informazioni e documenti per imporre un po’ dovunque i propri uomini alla guida di paesi vicini e lontani, distruggendo e massacrando popoli inermi, come ci ricorda Pinter a proposito della guerra in Irak  (o seconda Guerra del Golfo).

 Certo, si poteva far finta di nulla, si poteva restare tranquillamente in silenzio di fronte a questa tagica deriva umana. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Ma Pinter, come i dadaisti berlinesi, rifiutò, per dirla con Gramsci, l’indifferenza e decise di gridare forte la sua indignazione contro questo criminale dominio mondiale “del Finanzcapitalismo” (Luciano Gallino), convinto, tra l’altro, che il suo teatro avrebbe potuto rappresentare un efficace antidoto al pensiero unico globale. Il suo teatro è però “politico” in modo assolutamente inedito, perché a questa inarrestabile ascesa della nuova classe dirigente mondiale egli cerca di alludervi con un linguaggio drammaturgico molto originale, invitandoci ad osservare “dall’interno” come da una lente di ingrandimento, una umanità in frantumi, un corpo della società malato, degradato, investito da una inarrestabile decomposizione nei suoi valori umani, civili  e morali; e questo mentre su tutto domina incontrastato un potere assoluto, cieco, costruito sulla menzogna e – per dirla con Michel Foucault – sulla terrificante organizzazione reticolare del “Sorvegliare e punire”. Così, con Pinter veniamo improvvisamente catapultati in un universo concentrazionario senza via di uscita, senza alcuna possibilità di sottrarci alla violenza di questo nuovo governo del mondo. E Il bicchiere della staffa, il dramma da cui è partito Musella, ci dà sin dall’inizio tutta la misura di questa barbarie; qui infatti, in una camera-prigione semibuia, un violento aguzzino vestito di bianco, con il suo minaccioso interrogatorio umilia un uomo solo ridotto ad un automa, incapace di opporsi alla inaudita brutalità di questo super uomo del terzo millennio. Aggiungiamo che qui, forse più che in altri suoi testi, il drammaturgo inglese, oltre a mostrarci l’oppressione senza confini sui più deboli, ci mette di fronte all’esaltazione ossessiva e smisurata della morte da parte di questi nuovi padroni del mondo: la morte, naturalmente, come cancellazione dell’Altro: «Io amo la morte – dice Nicolas in una delle prime scene – E tu? E tu? Ami la morte? Non parlo necessariamente della tua morte. Quella degli altri, o se vuoi, ami la morte degli altri come la amo io?». 

 Insomma, Pinter – quando tanta nostra cultura era cieca e muta –  seppe farci vedere in quelle sue inquietanti stanze-prigioni quel “tempo dell’uccidere”, quella crisi di civiltà che ha tragicamente segnato il secolo breve: giunto, purtroppo, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. E perché non vi fossero equivoci sul suo orientamento ideale, denunciò pubblicamente «un paese dove la polizia carica una manifestazione pacifista di studenti e il giorno dopo i quotidiani pubblicano una foto di dimostranti che tirano pietre non è un paese democratico». É sempre il suo pensiero politico dell’intervista del ’93, che evoca profeticamente l’oggi, le brutali cariche della polizia contro studenti inermi che manifestano legittimamente contro il massacro dei palestinesi a Gaza. A questa pubblica indignazione civile, talvolta corrisponde in Pinter una drammaturgia “fredda”, per molti aspetti sottilmente autoriflessiva dei codici della finzione, con pause, silenzi enigmatici, scenografie minimali. Illuminante da questa angolazione, per tornare ancora all’intervista da cui siamo partiti – il suo ricordo dell’episodio da cui scaturì quell’atto unico del 1984, incentrato appunto sul dominio degli oppressi da parte di un potere criminale e assoluto. «Il bicchiere della staffa l’ho pensato a una festa. Stavo parlando con due ragazze turche. Ho chiesto che cosa ne pensavano della tortura (il riferimento è ai regimi autoritari in America latina, ndr) e loro hanno risposto: se li torturano, saranno comunisti. Avrei dovuto strozzarle subito invece sono andato a casa e ho scritto una commedia».  L’atto unico nato dall’incontro-scontro di Pinter con due ragazze turche plasmate dalla ideologia conservatrice della classe dirigente del proprio paese, si svolge in una stanza vuota dove è in corso il solito, minaccioso interrogatorio pinteriano; questa volta a condurlo è Nicolas, un uomo dei servizi segreti, che mette sotto pressione una coppia, la cui colpa è semplicemente quella di “pensare”. Dunque, anche da questo breve frammento drammaturgico, possiamo osservare come Pinter, in realtà, intenda interrogare le nostre coscienze, metterci di fronte al dolore dei vinti. Questo è il fil rouge “politico” che attraversa anche il secondo lavoro messo in scena da Musella, Il linguaggio della montagna, con cui egli, attraverso le terribili e ignorate violenze sui curdi, intende illuminarci sulla soppressione sul nascere da parte dei regimi autoritari di qualsiasi tentativo di chiedere giustizia reclamando i propri diritti. Il dramma, infatti, si svolge qui in un carcere di uno Stato oppressivo, criminale, dove si pratica sistematicamente la tortura e dove gli intellettuali sono separati fisicamente da cittadini, come i contadini, di diversa estrazione sociale, mentre le donne in visita ai loro parenti aspettano giorni per incontrare i loro cari.  «Mi chiamo Sara Johnson, dice una giovane donna, sono venuta a trovare mio marito. È un mio diritto. Dov’è?». Come non pensare di fronte alla crudeltà di questa iperrealistica scena pinteriana al triste viaggio in Russia della madre di Alexei Navalny, l’intellettuale russo antiputiniano fatto morire in un carcere siberiano, costretta per giorni ad aspettare al freddo e al gelo, prima che le consentissero di vedere il corpo del figlio morto per le torture inflittagli dagli aguzzini del despota russo.  Alla fine, Party time, del 1991, conclude questo omaggio a Pinter mostrandoci una affollata festa della buona borghesia londinese, dove i convenuti, sorridenti e spensierati, indossano abiti stravaganti come ad una kermesse pop di Comicon e discutono futilmente tra loro della gestione creativa e della armoniosa atmosfera “in questo club di primissimo ordine”. Ma ancora una volta lo sfondo del testo, con le parole di Jimmy che alludono alla sua fine, è un fosco orizzonte di morte. 

 Dobbiamo riconoscere che il violento attacco del potere repressivo globale sui più deboli di cui parla Pinter è tutto sotto i nostri occhi.  Ma questo buio, questo “sonno della ragione”, era per lui   insopportabile. E allora preferiva essere odiato, disprezzato dalla classe dirigente del suo paese piuttosto che non far sentire, per amore della verità, la sua voce. Il messaggio politico che ci consegna il bravissimo Musella nell’attraversare con i suoi altrettanto bravi attori il teatro di Pinter – pur con quale limite didascalico, riscontrabile soprattutto quando proietta sulla grande parete del palco documenti video o alcune parole chiavi del tema che ispirano l’azione (come “Arte- Verità- Politica”, per esempio) – è molto chiaro e forte. Come le parole di Pinter riprese da Musella, che alla fine suonano ancora come una importante lezione di teatro, di arte e di vita: «Non vi è una rigida distanza tra ciò che è reale e ciò che è irreale. Tra ciò che è vero  e ciò che è falso. Una cosa  non è necessariamente vera o falsa. Essa può essere vera e falsa insieme. Perciò come scrittore rimango fedele ma come cittadino non posso farlo». E poi ancora, aggiungiamo noi, ricordando un’altra significativa parte della sua prolusione al Nobel: «Il teatro politico presenta una gamma del tutto differente dei problemi. La predicazione deve essere evitata».  In fondo, la sfida del teatro politico, assurdo e “disubbidiente” di Pinter, è tutta qui: nell’idea ardua, ma non impossibile da perseguire, che il teatro possa unire etica ed estetica; permettendoci di scoprire quelle verità nascoste che, anche tra le inquietanti ombre del nostro tempo, ci consentano di non abbandonare mai il sogno di un altro possibile orizzonte umano.


Il Lino Musella di Harold Pinter 

di Rossella PETROSINO

Sulla locandina affisa nelle bacheche all’ingresso del San Ferdinando di Napoli dal 11 al 21 aprile, campeggia un volto umano, anzi due, entrambi di Harold Pinter. Poco più in basso a grossi caratteri tipografici si legge “Pinter Party” e una manciata di righe più giù il nome del regista Lino Musella è stampato a caratteri almeno dieci volte più piccoli. Dalla locandina si intuisce qualcosa dello spettacolo!

Ma andiamo con ordine. Che Lino Musella porti in scena un artista come Harold Pinter non stupisce, anzi risulta congruente con la sua precedente esperienza Tavola tavola, chiodo chiodo… (1), spettacolo dedicato a Eduardo De Filippo, che ne rivelava i tratti più “politici”, di un uomo eternamente in lotta con una burocrazia sorda alle necessità dell’artista e incapace di cogliere gli aspetti sociali del teatro e le sue profonde implicazioni culturali. L’operazione, che riscuote un notevole successo, ha il merito di non adagiarsi nel limbo della retorica legata alla tradizione, bensì manifesta la necessità – estremamente urgente – di non fare di Eduardo una reliquia da venerare senza indagarne la complessità umana e intellettuale. È da questo sguardo trasversale sull’autore napoletano e dall’approfondita conoscenza del suo pensiero che Lino Musella scopre la politica come valore profondamente umano. Ebbene, se Eduardo auspicava un teatro “impegnatissimo” e “popolare” (“ma in senso buono”) (2), Harold Pinter è uno degli intellettuali del Novecento che ha coniugato con più forza popolarità e impegno. Tanto è vero che proprio in questo solco si iscrive il progetto Pinter Party, una festa appunto in onore del drammaturgo inglese contemporaneo che ha come intento manifesto quello di “celebrare le parole di un autore che ha avuto la lucidità e il coraggio di alzare la propria voce da uomo di teatro, da poeta e da cittadino contro l’ingiustizia e l’oppressione di determinati sistemi di potere e di governi nel mondo”(3). Il “party” in suo onore avviene attraverso il collage di tre dei suoi brevi atti unici tenuti insieme da stralci del celebre discorso pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel per la Letteratura nel 2005(4), che costituisce una sorta di cornice tematica dello spettacolo, alla maniera boccacciana. Il Pinter al quale Musella guarda è l’ultimo, il più clamoroso o quantomeno quello che ha avuto più risonanza e più echi, quello che viene definito politico! Nonostante di conflitto si fosse sempre occupato (quello tra creature chiuse in una stanza), nella fase più matura della sua scrittura si occupa di un conflitto differente, ovvero quello che mina la pace del mondo. Lungo posizioni politiche sempre più estreme scrive tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, Il bicchiere della staffa (1984), Il linguaggio della montagna (1988) e Party Time (1991), ovvero i tre bellissimi testi scelti da Lino Musella per lo spettacolo da lui diretto. I tre minidrammi sono le ultime opere che Pinter scrive e nelle quali esplicita in termini di allarmata e inquietante denuncia, quel tema della Violenza, che poi è il vero leit-motiv dell’intera sua produzione. La manipolazione della verità a opera di un potere violento, la tortura, l’indagine della psicologia degli oppressori, la contrapposizione tra l’umano e il disumano costituiscono il nucleo comune dei tre atti unici. Si declina infatti in racconti ogni volta diversi la sostanza cruda e brutale delle vicende dei tanti oppressori della Storia. 

Il concetto di contrapposizione tra vero e falso che Pinter teorizza nel suo Arte, Verità, Politica è in questo spettacolo – scrive Musella nella nota di regia – il cuore del lavoro. Il discorso scritto dal drammaturgo inglese è abilmente intrecciato dal regista ai tre atti unici scelti, tanto da intrappolarli e rimanerne invischiato a sua volta. “Non vi è una rigida distinzione tra ciò che è reale e ciò che è irreale, tra ciò che è vero e ciò che è falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa; essa può essere vera e falsa insieme”(5). Queste parole di Harold Pinter sono le prime che egli pronuncia in occasione dell’accettazione del Nobel e sono le stesse di cui si serve il regista per introdurre al proprio pubblico la materia trattata. 

Il dualismo vero-falso si esplica di volta in volta nelle più estenuanti contrapposizioni: buono-cattivo, oppresso-oppressore, povero-ricco, umano-disumano. Persino la scena appare pulita e quasi totalmente sgombra, come a sottrarsi al fitto gioco di conflitti e contrapposizioni, riservato alla parola pronunciata dagli attori. Tuttavia, al centro, in fondo al proscenio è collocato un massiccio e alto parallelepipedo di colore grigio che a prima vista sembrerebbe un ascensore, ma che in seguito si presta a diverse e più inquietanti interpretazioni. Dinnanzi ad esso, infatti, si svolge lo spietato interrogatorio al quale viene sottoposto Victor, un prigioniero politico, condotto da Nicolas, il suo aguzzino, rappresentante di un non ben identificato regime dittatoriale. È il Bicchiere della staffa.  Questo primo testo ci introduce con violenza alla violenza.  È un testo emblematico sui rapporti di dominio, sull’uso della parola quale arma devastante, sull’impotenza delle vittime. Una breve pièce che è anche una sintesi fulminante dell’attitudine pinteriana a costruire dialoghi inquisitori e oppressivi, dove si dispiega tutta la follia che regge la logica del dominio della nostra civiltà.
Le parole asciutte, apparentemente civili, a volte cordiali di Nicolas, rivelano in controluce un sadismo sottile, insostenibile e osceno. Attraverso la sola presenza in scena del prigioniero vestito di nero e interpretato da Lino Musella e il suo aguzzino vestito di bianco e interpretato da Paolo Mazzarelli si palesa il dualismo oppresso-oppressore, non vi è confronto, la condizione dell’oppresso è chiara solo attraverso la sfacciata e violenta manifestazione dell’oppressore. La vittima non ha voce, subisce in silenzio la propria tortura e, se pure chiedesse di farla finita, così come accade a Victor che a un certo punto chiede di essere ucciso, non verrebbe accontentato, ricevendo in cambio soltanto disprezzo. 

VICTOR: Uccidimi.   

NICOLAS: Cosa?

VICTOR: Uccidimi. 

Nicolas va verso di lui, gli mette un braccio intorno alle spalle. 

NICOLAS: Cosa ti succede? (Pausa). Cosa ti succede, nel nome di Dio? (Pausa). Mmmnnn? (Pausa). Magari è solo la fame. O la sete. Ti voglio dire una cosa. Io odio la disperazione. La trovo intollerabile. Il suo tanfo mi penetra nelle narici. È una tara. La disperazione, caro mio, è come u cancro. Andrebbe castrata. E ti dirò di più, la cosa funziona. Tagli via le palle e come per incanto la disperazione si volatilizza. Ti ritrovi di fronte un uomo felice. O donna che sia. Guardi. (Victor lo guarda). La tua anima risplende attraverso i tuoi occhi.

Buio.(6)

Non resta possibilità di salvezza se non l’essere annientato dall’altro attraverso la parola, subendo la minaccia costante della violenza.
Questo testo di Pinter, riportato fedelmente dal regista, è un’accuratissima indagine sulle dinamiche del potere dell’uomo sull’uomo, un terribile squarcio sulla parola come strumento di dominio e controllo. La regia prende le distanze dal testo originale soltanto per un aspetto, ovvero nella scelta di tenere in scena solo due dei quattro personaggi; gli altri due – ovvero la moglie e il figlio, nonché le altre due vittime del dramma – vengono proiettati su uno schermo, muti o, meglio, doppiati, attraverso uno scimmiottamento, dal loro carnefice Nicolas che ne conduce l’interrogatorio. Non è chiara la localizzazione, nonostante le lievi e calde note di Victor Jara(7) che accompagnano gli ultimi momenti di tortura solo accennata ci riportino in Cile, potremmo trovarci in un qualunque altro paese autoritario. 

In realtà no, siamo a teatro, Lino Musella è rimasto in scena, si asciuga con un fazzoletto di stoffa il volto bagnato dall’alcol gettatogli dall’aguzzino e in questo modo sveste i panni di Victor per ritornare in proscenio, nei panni di Pinter a recitare il suo discorso…

 “È uno strano momento, il momento della creazione di personaggi che fino a quel momento non avevano alcuna esistenza. Ciò che segue è irregolare, incerto, perfino allucinatorio, sebbene a volte possa essere una valanga inarrestabile. La posizione dell’autore è singolare. In un certo senso non è gradito ai personaggi. I personaggi gli fanno resistenza, non è facile vivere con loro, sono impossibili da definire. A loro di certo non ci si può imporre…”(8)

Nel mentre compaiono in scena e la occupano seguendo traiettorie precise gli attori che saranno i personaggi del secondo atto unico scelto, Il linguaggio della montagna. Sulla scena ci sono quattro donne costrette a una snervante attesa davanti a un carcere, nella neve, per poter fare visita ai loro uomini tenuti prigionieri. Le donne aspettano per ore, subendo percosse e ogni genere di umiliazioni da parte delle guardie. Il conflitto centrale sorge dal divieto imposto a questa gente di parlare la loro lingua madre, e l’obbligo di usare invece quella ufficiale della capitale. Ovvero una cultura minoritaria di una zona rurale viene colonizzata e maltrattata dalla capitale attraverso la prevaricazione della lingua della città sull’espressione dialettale di minoranza. Nella prigione gli ufficiali abusano delle donne che aspettano di visitare i parenti e ordinano: “Ora state bene a sentire. Voi siete gente di montagna. Mi sentite? Il vostro linguaggio è morto. È proibito. In questo posto non è permesso parlare il linguaggio della montagna. Non potete parlare il vostro linguaggio con i vostri uomini. Non è permesso. Mi avete capito? Non potete usarlo. È fuorilegge. Potete solo parlare la lingua della capitale… È l’unica lingua permessa qui. Sarete severamente punite se userete il linguaggio della montagna, qui. È un decreto militare. È legge. Il vostro linguaggio è vietato. È morto”(9). E dunque, l’inosservanza di questa regola di segregazione è considerata un crimine. È il caso di Sarah Johnson, che non parla la lingua della montagna e l’ufficiale si accorge che il marito è nel gruppo sbagliato, poi insieme al Sergente “la circondano lentamente. Il sergente le mette una mano sul sedere” e le chiede “che lingua parli? Che lingua parli con il tuo culo?”(10). Pinter pone l’attenzione sulla capacità di resistenza e autocontrollo della donna; soprattutto mette in evidenza il modo in cui gli intellettuali sono considerati impotenti. I dialoghi infatti rappresentano l’anti-conversazione in cui parlare equivale a tiranneggiare. Il dramma mette praticamente in scena un sistema autoritario che intende creare una società patriarcale e mono-dimensionale. Qui Pinter opera un processo di notevole stilizzazione al quale il regista Lino Musella si uniforma fedelmente: l’azione drammatica è semplice e la regia si sviluppa attraverso una incalzante sequenza di immagini. L’elemento visivo viene accompagnato da un linguaggio solo apparentemente semplice che Pinter manipola abilmente attraverso una tecnica compositiva già sperimentata nel suo teatro precedente: il turpiloquio. Le scene brevi, crudeli si susseguono in un movimento cromatico, dalla luce al buio, gli spazi si giustappongono nevroticamente; ma a un certo punto irrompe la quiete: un’unica scena in cui due personaggi usano in idiosincrasia il semplice linguaggio poetico. Un prigioniero brutalmente incappucciato, seduto a proscenio è raggiunto dalla moglie che infila la sua testa sotto il drappo bianco. La splendida e delicata scelta registica di dedicare un momento così “sospeso” al linguaggio degli amanti è una occasione di distensione per lo spettatore. È molto probabilmente un tentativo da parte di Pinter di tenere in vita lo spazio della memoria che in questi drammi viene del tutto distrutta, al quale il regista Musella dà, giustamente, la dovuta rilevanza. 

VOCE DELL’UOMO: ti osservo mentre dormi. Poi apri gli occhi. Alzi lo sguardo, mi vedi sopra di te e sorridi.

VOCE DELLA GIOVANE DONNA: tu sorridi. Quando apro gli occhi, ti vedo sopra di me e sorrido. 

VOCE DELL’UOMO: siamo fuori, vicino a un lago.

VOCE DELLA GIOVANE DONNA: è primavera. 

VOCE DELL’UOMO: ti stringo. Ti scaldo

VOCE DELLA GIOVANE DONNA: Quando apro gli occhi, ti vedo sopra di me e sorrido.(11)

Il linguaggio degli amanti descrive la bellezza del paesaggio. La loro poesia offre un modello di un’altra possibile società idilliaca e getta lo sguardo su un altro mondo ideale. Ci riporta per pochi minuti all’ideale di kalokagathia platonico che contrasta però con la realtà quotidiana. Questo testo è certamente frutto di suggestioni specifiche. L’opera infatti fu ideata già nell’’85, durante un viaggio in Turchia dove Pinter e Arthur Miller si erano recati per indagare sulla situazione dei dissidenti politici in quel Paese. Al ritorno, Pinter fece un quadro severo delle loro condizioni, insieme a numerose impressioni e immagini che divennero in seguito materiale per Il linguaggio della montagna. Ma, anche in questo caso, la messa in scena assume valore universale, nella drammatizzazione della funzione vitale che assume una lingua madre per la sopravvivenza e la dignità dell’uomo. Metafora dominante del dramma diventa la violenta soppressione della lingua parlata da una popolazione di montagna, da parte, ancora una volta, di un non bene identificato regime dittatoriale. Appare tutto chiaro già nel testo di Pinter, e viene fuori altrettanto chiaramente dalla messa in scena. Motivo per il quale la scelta di proiettare a fine atto il documentario che mostra immagini di soldatesse curde firmato da Matteo Delbò – per quanto attinente –  appare non del tutto convincente perché ridondante. 

Il regista Lino Musella in un’intervista  (https://www.rainews.it/tgr/campania/video/2024/04/violenza-e-menzogne-del-potere-in-pinter-party-d89fa5b9-205a-43c6-85b6-8ba26c4b8d83.html) dice a proposito dei tre testi che compongono lo spettacolo: “Io li avevo letti quasi ingenuamente come se fosse un unico testo, ho immaginato che questi carnefici, oppressori, uomini di governo disumani poi andassero a festeggiare” e così è stato sul palco del San Ferdinando! Dal chiuso della stanza della prigione si passa in un locale di lusso. Siamo a una festa un po’ caotica, in cui si parla di sesso e di club di fitness, mentre fuori dalla porta è in corso una specie di rivoluzione o di colpo di stato. Non è chiaro se sia una guerra o una rivolta, in ogni caso una feroce repressione i cui cospiratori sono tra gli ospiti della festa. Attraverso l’alternanza di battute e scene si passa rapidamente dalla stanza alla strada mostrando in modo impietoso il rapporto contemporaneo tra mondanità e potere e descrivendo una società ferocemente repressiva quanto più sembra invece libera dal punto di vista dei costumi soprattutto sessuali. Un tentativo di collegamento tra il mondo esterno e interno è dato dalle domande di alcuni componenti del gruppo: – Tu sai cosa è successo a Jimmy? Cosa è successo a Jimmy?(12) – ma ad esse non segue risposta. Si soffoca l’argomento con la chiacchiera, spostando l’attenzione su altri luoghi lussuosi dotati di ogni comfort, come i club di tennis, i ristoranti costosi, come dimostrano le conversazioni: 

TERRY: c’è un bar, sa, con delle alcove di vetro, che si affacciano sotto l’acqua.

DUSTY: la gente nuota verso di te, mentre ti bevi una cosa. 

TERRY: ragazze bellissime.

DUSTY: anche uomini.

GAVIN: soprattutto ragazze.(13)

Il ricevimento di Party Time si trasforma sul palco del teatro San Ferdinando in una festa di supereroi, il regista infatti fa indossare agli attori abiti delle maschere americane, ottenendo un raggelante effetto grottesco. Ritroviamo in scena alcuni Batman, Superman, Wonder Woman, Catwoman e Spiderman. E poi emergono due figure femminili che sfuggono alla Justice League of America e sono una donna straniera che ricorda Tiana, la protagonista del film di animazione Disney “La principessa e il ranocchio”, una seconda donna, più anziana travestita da Statua della Libertà, il cui seno sporge fuori sotto forma di due spuntoni. A quest’ultimo personaggio, è riservato uno spazio privilegiato nella rappresentazione iconica di tutto il vacuo e il frivolo della borghesia capitalista. Queste creature dei fumetti così bene rappresentate in scena, riflettono esattamente il carattere americano dell’individualità eroica. E in questo senso risulta eccelsa la prova degli attori che si lasciano travolgere dai loro personaggi, invischiati come sono in conversazioni di circostanza, nell’individualismo, nell’egoismo e nel narcisismo; sepolti brillantemente sotto parole assolutamente false. Di colpo, guardando quegli eroi muoversi come buffoni sulla scena, ci ricordiamo di quando quegli stessi supereroi combatterono la loro crociata durante la Seconda Guerra Mondiale, di quando i comics furono trasformati in mezzi di propaganda più o meno esplicita e quasi tutti i supereroi si unirono alle fatiche della guerra.

Alla fine della festa, dopo un’apparente riconciliazione di tutte le tensioni, gli attori si allontanano dalla scena per poi riapparire con abiti contemporanei sul proscenio, partono gli applausi ma lo spettacolo non è concluso, Lino Musella conquista il silenzio con un leggero cenno e tutti insieme gli attori interpretano la parte di Jimmy, l’oppresso di questo spettacolo, probabilmente morto, che anela alla pace e al vuoto: “è tutto quello che ho. Ho il buio in bocca e lo succhio. È tutto quello che ho. È mio. Mi appartiene. Lo succhio”.(14)

A questo punto rimane in scena Lino Musella, che dall’inizio dello spettacolo si distingue per il modo sottrattivo in cui occupa lo spazio, che discretamente e a tratti in maniera atonale, recita d’un fiato il lungo estratto dell’ultima parte del discorso diffuso in videoregistrazione all’accettazione del Nobel. Una violenta accusa contro gli Stati Uniti d’America e contro i loro alleati, un elenco atroce delle guerre, delle crudeltà e delle verità nascoste.

“Quando guardiamo in uno specchio pensiamo che l’immagine che ci restituisce sia accurata. Ma se ci muoviamo di un millimetro l’immagine cambia. Noi ora stiamo guardando una gamma infinita di riflessi. Ma qualche volta uno scrittore deve rompere lo specchio – perché è dall’altra parte di questo specchio che la verità ci osserva. Io credo che nonostante gli enormi ostacoli che esistono, essere intellettualmente determinati, con una determinazione feroce, stoica e irremovibile, a definire, come cittadini la reale verità delle nostre vite e delle nostre società è un obbligo cruciale che incombe su tutti noi. Di fatto è imperativo. Se tale determinazione non si incarna nella nostra visione politica non abbiamo speranza di restaurare quello che siamo molto prossimi a perdere – la nostra dignità di uomini”.(15) 

Dopo 1 ora e 35 minuti si congeda con queste parole l’attore e regista Lino Musella dalla scena; dopo un lavoro non semplice di seria declinazione degli scritti probabilmente più controversi del drammaturgo inglese, stando sempre un passo più indietro rispetto al suo pensiero, ottemperandone la natura e le intenzioni. D’altra parte tutto il cast tende a uno stile secco, nudo, essenziale, pressocché documentario di riproduzione fotografica, se si vuole, di uno “stato delle cose” insopportabile, e tuttavia resistente a ogni denuncia.Le scene, i costumi, le musiche, le luci, i movimenti scenici, l’idea precisa di una interpretazione, fissati dal regista Lino Musella vanno tutti nella medesima direzione: la parola. Questa è per tutto lo spettacolo un’arma psicologica capace di sostituire un atto di violenza fisica. 

Accennavo all’inizio di questo mio contributo alla locandina dello spettacolo, a quanto questa risulti parlante: il nome del regista e attore Lino Musella scritto a caratteri estremamente più piccoli rispetto al titolo dello spettacolo che omaggia il drammaturgo Pinter ci dice molto riguardo la natura della rappresentazione, di quanto la regia abbia lavorato per sottrazione in favore della pura parola di Pinter. Dopo la calorosissima accoglienza ricevuta a Napoli, auguriamo al regista e a tutta  la Compagnia una lunga e felicissima tournée!

  • 1)  Debutta in prima nazionale il 22 ottobre 2020 presso il Teatro San Ferdinando di Napoli, diretto e interpretato da Lino Musella, al quale è stato assegnato il premio Migliore Attore Le Maschere del Teatro 2022. 
  • 2) R. Gervaso, Lettere al corriere domenica, «Corriere della Sera», 17 dicembre 1978. 
  • 3)  Note di regia. 
  • 4)  Il 7 dicembre 2005 Harold Pinter non poté essere presente per motivi di salute all’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura e quindi inviò un discorso che fu diffuso in videoregistrazione dal titolo  Arte, Verità e Politica.
  • 5)  H. Pinter, Arte, Verità e Politica, in A. Serra (a cura di), Chiaro di luna e altri testi teatrali, Einaudi, Torino, 2011, p. 310.
  • 6)  H. Pinter, Il bicchiere della staffa, in A. Serra (a cura di), Harold Pinter. Teatro, vol.2, Einaudi, Torino, 16 giugno 2015, pp. 226- 227. 
  • 7)  Víctor Lidio Jara Martínez, (Chillán, 28 settembre 1932 – Santiago del Cile, 16 settembre 1973), è stato un musicista, cantautore e regista teatrale cileno. Sostenitore del presidente Salvador Allende, fu barbaramente assassinato cinque giorni dopo il golpe dell’11 settembre 1973, vittima della repressione messa in atto dal dittatore Augusto Pinochet.
  • 8)  H. Pinter, Arte, Verità e Politica, in A. Serra (a cura di), Chiaro di luna e altri testi teatrali, cit. p. 312. 
  • 9)  H. Pinter, Il linguaggio della montagna, in A. Serra (a cura di), Harold Pinter. Teatro, cit. pp. 238-239.
  • 10)  Ivi. p. 239.
  • 11)  Ivi. p. 242. 
  • 12)  H. Pinter, Party Time, in A. Serra (a cura di), Harold Pinter. Teatro, vol. 2, cit. p.252.
  • 13)  Ibidem
  • 14)  Ivi. p. 264.
  • 15)   H. Pinter, Arte, Verità e Politica, in A. Serra (a cura di), Chiaro di luna e altri testi teatrali, cit. p. 351.