Al TAN, con Totò e Vicé, rivive il mondo-teatro di Franco Scaldati

di Antonella ROSSETTI

Unni va u focu quannu s’astuta ?” Queste le parole del poeta “sarto” Franco Scaldati, riportate su di un murales all’Università di Palermo, a voler sottolineare, con marcato disappunto, come certi fuochi ardenti e vivaci, autentico génie, non sono sempre riconosciuti e custoditi gelosamente, in special modo dalla terra, spesso, che ha dato loro i natali. U focu, l’arte scrittoria e scenica, l’archivio di Scaldati ha preso il largo: attraversato lo stretto di Messina e viaggiato in direzione di Venezia. L’immenso patrimonio scaldatiano è stato affidato dagli eredi all’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Dopo otto anni dalla morte dell’attore, drammaturgo e poeta, Franco Scaldati, fortunatamente, qualche illuminato conterraneo progetta di salvare l’operato del “cantore di Palermo e della Sicilia, che ha fatto della propria lingua uno strumento formidabile per raccontare vicende e vite reali con uno stile inconfondibile” (Laura Cappugi, direttrice del CRICD – Centro Regionale Inventario, Catalogazione e Documentazione). Pertanto, il 16 dicembre del 2022, a Palazzo Belmonte, Riso – Museo regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo, sono stati presentati i primi due volumi dell’Opera Omnia di Franco Scaldati della Marsilio Editori. A tal proposito, è molto interessante rileggere il contributo di Rossella Petrosino pubblicato sul sito del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Mediterraneo ed Europeo (https://www.centrostuditeatro.it/2023/10/guida-galattica-per-i-lettori-novembre-2023/novembre-2023/). Il piano editoriale prevedeva la pubblicazione di otto volumi, con una pianificazione triennale: i primi due volumi già editati nel 2021 e i rimanenti nel biennio 2022-2023. Il corpus dei lavori teatrali del drammaturgo palermitano si compone di trentasette testi inediti (tra questi: “Il cavaliere Sole”, “Fiurina”, “Indovina Ventura” e “Sul muro l’ombra di una farfalla”) e diciassette lavori già pubblicati, ma introvabili. I testi, molti dei quali manoscritti con note a margine, sono stati (e saranno) sottoposti a trascrizione, integrazione e traduzione con la curatela del Comitato scientifico che è costituito da: Maria Ida Biggi (Università Ca’ Foscari e direttrice Fondazione Cini), Melino Imparato (attore, storico collaboratore di Scaldati e direttore artistico della Compagnia “Franco Scaldati”), Donatella Orecchia (docente dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”), Viviana Raciti (Dottoressa di Ricerca e studiosa dell’opera di Scaldati), Valentina Valentini (docente dell’Università “Sapienza” di Roma), Roberto Giambrone (giornalista e critico), Antonella Di Salvo (collaboratrice di Franco Scaldati). L’attività di raccolta e traduzione ha visto il recupero filologico dell’Opera, proponendo i testi con competenza e precisione, accompagnati dalla traduzione a fronte. Ad oggi sono stati pubblicati cinque volumi dell’opera omnia. Ogni volume è stato e sarà arricchito da un saggio a compendio, con la funzione di introdurre e approfondire le questioni formali e le tematiche trattate. 
A Napoli, quest’anno, per la stagione 2023-2024, si è creata un’interessante occasione, per condividere e godere la liricità scenica del grande Franco Scaldati: al Teatro Area Nord – TAN, hanno preso corpo e voce “Totò e Vicé, testo teatrale che sarà pubblicato nel volume ottavo dell’Opera. In attesa della pubblicazione dell’intero e prezioso lavoro, se ne racconta qui la messinscena.

Per la stagione 2023/24 il Teatro Area Nord di Napoli, ospita un lavoro, tra i più rappresentativi, della drammaturgia di Franco Scaldati: Totò e Vicè.  Scaldati, classe 1943, rappresenta una tra le voci più autorevoli della drammaturgia siciliana del ‘900, maestro di riferimento per molti autori insulari contemporanei. L’universo dell’attore-autore-regista “sarto”, crea un autentico cambiamento per stile e contenuto, rispetto ai drammaturghi che lo avevano preceduto. “Io cunto  i  visioni mia luminose e oscure”, scrive Franco Scaldati in un inedito “Lucrezia”, restituendo in breve il senso e l’idea del suo teatro (Franco Scaldati, Il teatro del sarto, Ubulibri 1990). La raffinata poeticità, l’onirico, la musicalità della lingua ne caratterizzano peculiarità fortemente identitarie. I personaggi di Totò e Vicé comparvero per la prima volta all’interno di Indovina Ventura, per poi trovare un proprio spazio autonomo nel 1993, in occasione delle Orestiadi di Gibellina. L’Autore, in seguito, opererà diverse varianti: Totò e Vicé e l ‘angelo delle lanterne, Totò e Vicé sono in realtà… due lucciole (1995), Sono Totò e Vicé due pupi di zucchero. Queste versioni troveranno una fusione nel 2003 per i tipi di Rubbettino. Il regista Giuseppe Cutino, per il suo adattamento e regia del testo scaldatiano sceglie due interpreti d’eccezione: gli straordinari Rosario Palazzolo (Totò) e Anton Giulio Pandolfo (Vicé), drammaturghi-attori e registi, rappresentanti della più fervida creatività teatrale siciliana e nazionale. I protagonisti Totò e Vicé accedono alla scena del TAN partendo dal fondo: con abiti in lino fuori misura, tenuti da larghe bretelle, uno di colore avorio e l’altro tabacco, scendono le scale laterali e attraversano la platea. Parallele le scale, parallele le azioni, le battute, le reiterazioni e le domande che non trovano risposta. I due si chiamano ad alta voce, si cercano, si parlano senza guardarsi, Vicé:” Ti chiami da solo e non ti rispondi?”. Un dialogo-monologo, due voci che si intersecano per esprimere pensieri e slanci comuni. Stesso sentire, stessi desideri e sogni. Parlano tra loro per non comunicare con nessuno o forse solo a sé stessi. Il fondale è un lenzuolo-drappeggio bianco, come quelli in uso in chiesa o nelle processioni delle feste per il santo patrono del paese. Al centro della scena, erti, due cuscini bianchi: due sedute, due sacche, due tombe. Diametralmente opposte, due donne vestite di nero siedono su piccoli assiti: vedove siculo-greche intente a cucire e a “cuntare”. Egle Mazzamuto e Sabrina Petyx, testimoni d’eccezione del rigoroso lavoro, svolto per anni, con il drammaturgo palermitano.  Come Corifee di un coro, commentano, anticipano, partecipano l’agito teatrale. Posto lateralmente in proscenio, il musicista Maurizio Curcio, autore delle musiche originali eseguite dal vivo, con tecnologie moderne innesca suoni fortemente contemporanei che ben si coniugano alla particolare voce di una virtuosa cantate come Egle Mazzamuto, che ricorda i canti arcaici, voce che evoca ed affabula. La coppia Totò e Vicé, come nati dal binomio buio/luce, “u scuru è a porta u lustru”, nascono da un ossimoro, in quel preciso momento in cui si animano. E in questo luogo non-luogo, immaginato o sognato, Vicé: “Al cimitero ho paura e c’è umido, mi uccisi, mi sognai?”.
Passano in rassegna le fotografie affisse sulle tombe, dove: “i morti sono tutti sempre belli ed eleganti”. Anche loro si rivedranno nelle foto proiettate sul drappeggio e Vicé commenterà con il suo sorriso incantatore:” come sono bello”. Effigi che subito spariranno. Forse perché non sono mai morti o forse mai esistiti, “Vicé: abbiamo esistito mai?”. E l’antico gioco infantile ha inizio: i due eterni bambini saltellano, s’inseguono, si toccano, si spingono, saltano la cavallina, fanno la campana. Vicé: mi metto a camminare e non mi fermo piùPerché cammini piano piano? E Totò: “Così il tempo non passa ed io resto picciotto”. E la poesia profusa trova l’acme in un lungo abbraccio, infinito. Forse fraterno. Sicuro d’amore. Totò scrive a terra, come sulla sabbia, parole macigni che non lasciano traccia: “… siamo segno, disegno”. Rosario Palazzolo, spostandosi con micro movimenti nello spazio scenico, con lo schiocco delle dita accompagna l’intermittenza dello spegnersi e accendersi delle flebili luci: sipari, mondi, idee e ricordi. Così i versi degli animali, l’onomatopeico, risuonano altisonanti ed eloquenti: il significante sottolinea continui rimandi di vita e di morte.  Poi cadono a terra a gambe all’aria e iniziano a divertirsi con i piedi e con la lingua: assonanze fonetiche, scambi tra coppie minime si susseguono: peri nuro, peri duro, peri ursu. Il corpo teso di Totò, in posizione fetale arcuata tende le parole; sembra che il dire imploda nella tensione di un corpo e in un piede marcatamente tuortu.  La gioiosa elasticità di corpi ed espressioni illuminano la scena e la sala, i visi, gli animi. Qui, l’istante diventa eternità. La dinamica gestuale dell’azione tra i due interlocutori, crea linee immaginarie che si dividono ed articolano continuamente nello spazio. Ogni parola, ogni sussulto si fa sentire fisicamente, mediante sincinesie propriocettive precise, studiate con grande meticolosità. La parola-suono diventa materia che si tocca anche ad occhi chiusi e la si riconosce come in prove di stereognosia. Costante è l’accenno al concetto di reversibilità delle identità sessuali: Totò e Vicé sono l’indefinito, passeggeri di qualcosa che diventa altro, ombre che si sdoppiano, stessa ombra che si scinde per non definirsi mai. E quasi sul finire, quando Totò e Vicé, tirano fuori dalle borse, dal loro passato, lumicini che riempiono la scena, tratteggiano binari morti, invocano padri, madri e affetti oramai troppo lontani. In questa penombra di un altrove che emoziona, segni, codici e registri, riportano alla mente “ritornanti” di Enzo Moscato, compianto drammaturgo partenopeo scomparso da poco. Le attrici, sul fondo, levano in alto e mostrano due abiti neri eleganti che adagiano dietro le tombe-cuscini. Totò e Vicé cambiano veste, si mutano in angeli belli ed eleganti, proprio come si appare nelle preci. Tutti gli interpreti avanzano in proscenio e con la voce filtrata dai microfoni accennano: ”Siamo matite colorate, siamo di seta, fili di seta”; e Totò: “Pensieri attaccati all’ossa”. 
Giuseppe Cutino realizza una regia sapiente, mostrando la profonda conoscenza del testo scaldatiano e la storia del teatro del Sarto. Il regista si misura con il testo, quasi interrogando l’Autore durante l’originale adattamento e l’accurata riscrittura scenica del lavoro.  Propone una rielaborazione dell’opera del tutto innovativa, senza velarne mai il senso precipuo bensì enfatizzando le coordinate della tessitura scrittoria che rendono questa pièce molto interessante. È posta in rilievo l’importanza che Scaldati attribuiva alla musica, parte fondamentale della sua drammaturgia, una partitura articolata e complessa (tecnica utilizzata da uno tra i più grandi autori teatrali del 900: Raffaele Viviani). Valori aggiunti si rivelano la partecipazione di attrici-cantanti del calibro di Egle Mazzamuto e Sabrina Petyx, il musicista Maurizio Curcio e due attori come Palazzolo e Pandolfo che offrono una singolare prova attoriale di altissimo profilo e di forte impatto.
Dunque, il palcoscenico del TAN, tra il visionario e l’onirico, diventa più di una metafora con la volontà di un parlare scenico diretto. Restano fissi gli assiomi del fare teatro. Il teatro è comunicazione e in quanto tale deve esprimersi mediante concetti di fondo: sapere cosa si vuole dire e come lo si voglia dire, nel modo più pertinente e più semplice. Questa è la carta vincente della scrittura di Scaldati: complessità della struttura e semplicità di fruizione. Qui la fatica della costruzione scenica sembra sparire per mostrare allo spettatore soltanto leggerezza e poesia. Ne risulta l’abilità nel saper manipolare con competenza l’oggetto teatro nella sua linearità, la sua pratica vista come tecnica ed estetica. Appare un teatro che non s’impone, mai autoreferenziale, sorgente di una freschezza e naturalezza di stile che meraviglia ed entusiasma. Così al TAN di Napoli, il sogno come eco, la nostalgia, il fanciullesco e la lingua materna dialettale risultano immagini liriche e pregnanti, esaltati da artisti maiuscoli, esponenti della magistrale artigianalità di “essere” teatro di Franco Scaldati.
Cutino, a replica finita, riferisce agli astanti presenti, che nel periodo della pandemia, mentre lavorava al testo di Scaldati era stato colpito profondamente da una frase dell’Autore: “i vestiti ca mettono i morti poi addiventano ali?”. Queste parole furono illuminanti e calzanti per poter e dover ricordare i tanti morti causati dal Covid 19  che non avevano ricevuto degna sepoltura.