Guida Galattica per i Lettori | Luglio 2024

AMICO ROMANZO

IL CLIENTE BUSKEN

di Caterina DE CAPRIO

Jeroen Brouwers, Il cliente Busken, traduzione di C. Di Palermo e F. Panzeri, Milano, Iperborea, 2024, pp.235.

La casa editrice “Iperborea”, da anni impegnata a divulgare in Italia autori della cultura nord europea, ci consente ora di leggere in una raffinata traduzione l’ultimo romanzo del nederlanse Jeroen Brouers. Pubblicato ad Amsterdam nel 2020, dopo un lavoro di scrittura durato quattro anni (2015-2019), questo suo “testamento letterario” ne precede di poco la morte, avvenuta nel 2022. 

Una voce, quella del cliente Busken, domina il libro in tutta la sua durata, nella fusione di realtà e fantasie mentali, conscio e inconscio. Secondo la tecnica del monologo interiore, l’autore affida al flusso di coscienza i pensieri, le impressioni, i furori del suo protagonista, ricoverato della casa di riposo Villa Madeleine, ma definito “cliente”, all’interno della struttura assistenziale, con uno slittamento semantico, tipico dei nostri tempi e dei diffusi tentativi di rimozione della malattia e della morte da parte di una società incentrata sui consumi. Il lettore pertanto non avrà mai accesso alla verità sulle condizioni del paziente, cioè alla cartella clinica di  Busken,  semiparalizzato, afflitto da disturbi alla vista e alla parola. Eppure, seguendone le dissacranti parole, le ironie, le fantasticherie, egli ne conoscerà le infastidite reazioni di fronte a medici e psichiatri che con i loro test e le loro indagini cliniche ne faranno scattare le istintive difese, così come nei confronti degli infermieri che lo tratteranno da bambinetto disubbidiente ricordandogli  sistematicamente le norme del luogo: suonare il fischietto “quando gli scappa”, avvitare il tappo del dentifricio, sedersi sul water per fare pipì, giuste raccomandazioni per chi sembra affetto da senile demenza. 
Chiuso nel suo mutismo Busken registra tutto quello che vede e sente intorno a lui, con rabbia assiste al graduale annullamento della propria dignità di persona, sia per un oggettivo decadimento fisico, sia per la continua  somministrazione di pillole e iniezioni, utili a sedarne i tremori fisici e a spegnerne i confusi desideri di fuga e di libertà. La pagina letteraria si adegua perfettamente alla complessità della situazione e del tema grazie ad una attenta manipolazione del linguaggio. L’autore ne sfrutta le potenzialità mimetiche, ricorrendo al gergo d’ambiente: quello dei terapisti (“con il deambulatore avanti e indietro per il corridoio. I piedi diritti, non li giri all’indietro”), o  quello degli altri, regrediti ospiti della struttura (“Ma insomma si farà? Si lagna Mieneke Kalckbrander. Si farà che cosa?Il barbecue, Certo che si farà perché no. Si sta rannuvolando parecchio[…] Mi mangerei volentieri uno spiedino, anche due. A chi lo dice?”). D’altra parte, a sottolineare le situazioni di umiliante impotenza del protagonista,  vengono accentuate le potenzialità espressive del linguaggio, sì da conferire una dimensione allucinata alla realtà che egli ha sotto gli occhi ( “l ‘identità sessuale della suddetta Carola non può dar adito a dubbi, questa starnazzante entità psichiatrica è provvista di seni tondi ed esplosivi come le palle di cannone sparate alla presa di Brielle”).
Cosa fare di questa impotenza e di questa totale dipendenza si chiede il nostro eroe quando è a contatto dei suoi instupiditi compagni tra i quali si sente scombussolato, paradossalmente troppo sano per condividerne i pomeriggi di socializzazione, troppo intelligente per la terapia occupazionale che prevede i giochi da tavolo (il Domino, l’ “Indovina chi”),oltre alle canzonette da cantare insieme e ad altri puerili passatempi. La delirante megalomania cui egli ricorre, nel voler ricordare a se stesso, nei momenti critici, di essere stato un ingegnere, un latinista, un neurochirurgo è menzognera millanteria, ma sembra anche patetica risposta all’ansioso desiderio di rientrare in pieno possesso di sé, oltre che un fallimentare tentativo di  sottrarsi ai meccanismi di costante controllo, operanti nella struttura sanitaria, da lui avvertita come una snaturante prigione. 
Misantropo e mitomane, il cliente di villa Madeleine si rivela così un personaggio di struggente umanità per la sua residuale resistenza di fronte all’imminenza della propria fine, ma ancor più una suggestiva personificazione della vitale e necessaria opposizione scatenata dall’ ipocrita, collettiva propensione a rimuovere la complessità della esperienza della sofferenza e della malattia, una tendenza  della nostra società contemporanea che, a  parole, si proclama contraria ad ogni discriminazione e si adegua al mito del politicamente corretto, ma si rivela sempre più spesso smemorata e superficiale nel confinare in luoghi separati quanti sono reputati un inutile peso: gli infelici, negati allo sguardo degli altri e, con cinica indifferenza, abbandonati alla propria solitudine.



SIPARI APERTI

IL CORPO, IL SUONO E LA SCENA. PER UNA DRAMMATURGIA SUI CORPI E SUI SUONI. ANALISI DELLA LINGUA DI SCENA DEL TEATRO DI ANNIBALE RUCCELLO

di Stefania STEFANELLI

Carmen Lucia, Il corpo, il suono e la scena. Per una drammaturgia sui corpi e sui suoni. Analisi della lingua di scena del teatro di Annibale Ruccello, Napoli, BeaT entertainmentart, 2022

Annibale Ruccello appartiene a pieno titolo a quella generazione di drammaturghi detta “Nuova drammaturgia a Napoli” a cui appartengono altri celebri autori teatrali come Enzo Moscato e Manlio Santanelli.

Come è stato dimostrato dalla critica, la successione generazionale di questi autori rispetto a celebri emblemi del teatro partenopeo come Viviani, Scarpetta, Eduardo De Filippo non soltanto non induce alla continuità con le generazioni precedenti ma si pone, come spesso avviene per i figli di padri illustri, in rottura con essa, orientandosi verso le correnti d’avanguardia che operano una cesura con le scelte sceniche, tematiche e linguistiche dei predecessori. Inoltre, la generazione a cui appartiene Ruccello vive in un’epoca caratterizzata dai mutamenti sociali dovuti all’esplosione del cosiddetto boom economico, successivo alla tragica distruzione portata dalla seconda guerra mondiale; tra gli effetti più eclatanti ‒  e caratterizzanti i drammi di questo autore ‒ la migrazione dalle campagne alle città e la parallela «speculazione edilizia» narrata da Calvino. In questo contesto, come dimostra ottimamente Carmen Lucia nel suo volume Il corpo, il suono e la scena, è ambientata l’opera di Ruccello che, non a caso, afferma in una intervista che la ricerca di Nuova Drammaturgia scaturisce «assai più dal lavoro degli anni 60 e 70, dalla sperimentazione che dalla drammaturgia tradizionale».

La figura di Ruccello è sicuramente tra le più significative di questa nuova generazione per la sua capacità di coinvolgere nei testi molteplici dimensioni; la parola resta l’elemento di fondo ma il corpo è la componente prioritaria: «Quasi sempre scrivo per dei corpi precisi.» afferma l’autore «Anche se poi questi corpi cambiano, comunque già la mia costruzione scritta tiene conto di una persona precisa, di un modo di parlare suo proprio».

Dalle analisi puntuali e acute che Carmen Lucia compie sull’intero universo teatrale di Ruccello, molti sono gli argomenti che illustrano esaustivamente l’ispirazione colta e insieme appassionata  di un autore che fa confluire nei suoi testi le conoscenze di antropologia culturale acquisite all’Università e le riflessioni sulla lingua e sulla cultura napoletana maturate nel gruppo di ricerca di Roberto De Simone. Infatti, come fa emergere Lucia dalle sue pagine, uno dei nodi fondamentali della drammaturgia di Ruccello consiste proprio nella strutturazione del linguaggio: ciò significa assumere coscienza del problema dell’uso del dialetto durante decenni nei quali l’alternativa italiano standard-dialetto è ancora oscillante. L’orgogliosa consapevolezza del fatto che la tradizione dialettale campana varca i confini del localismo porta Ruccello ad affermare in una intervista a «Sipario» che «quella napoletana è l’unica drammaturgia nazionale»; e tuttavia, il dialetto di questo autore non è mai una forma sclerotizzata ma percorre le diverse forme diastratiche e diafasiche opportune a esprimere a parole, di volta in volta, la tipologia del personaggio e l’ambiente dell’azione. Eppure, Ruccello è pienamente consapevole dell’incombere di un italiano standard imposto soprattutto dai mass media ‒ come avviene in Notturno di donna con ospiti ‒ che altro non è che una lingua artificiale, ma se il dialetto appare talvolta come la modalità di ritorno alle origini sia pure in toni drammatici ‒ come nel personaggio di Ida in Week-end ‒ nello stesso tempo i margini sociali che si stringono intorno al personaggio che lo parla, lo fa diventare la lingua della separatezza e della segregazione. Emerge dunque la consapevolezza con la quale l’autore mette in scena un conflitto fra linguaggi e culture diverse che coesistono all’interno di una medesima fascia sociale entro una stessa area urbana.

L’altro nodo intorno al quale si addipana (e si sdipana) la drammaturgia di Ruccello è rappresentato dalla figura femminile sempre caratterizzata da un’ambiguità di fondo, come il femminiello di nome Jennifer (Le cinque rose di Jennifer) e il personaggio di Anna che altro non è che il suo doppio. Ma soprattutto, il personaggio femminile di queste commedie incarna un fenomeno sociale tipico dei decenni nei quali ha vissuto Ruccello, lo sradicamento dell’individuo dalle proprie tradizioni e dunque la vita in una dimensione solitaria e claustrofobica, come nel caso della protagonista di Week end, meridionale catapultata in un’anonima periferia romana; ma lo stato di segregazione claustrofobica può derivare anche da una decadenza storica irreversibile, come per Clotilde, baronessa borbonica ormai in esilio, affiancata dalla cugina povera Gesualda, sua infermiera e carceriera, nella commedia Ferdinando.

Infine, sono di significativo rilievo nel volume di Lucia le frequenti citazioni di un personaggio mitologico, Medea, che in una sorta di riscrittura della tragedia euripidea (come afferma la studiosa) si incarna nella protagonista femminile in Notturno di donna con ospiti. Anche in questo caso, come in altri citati da Lucia, è possibile vedere in trasparenza l’influsso esercitato su Ruccello dal magistero di Pier Paolo Pasolini. Alcuni anni dopo il dramma di Ruccello, un altro compositore teatrale, Antonio Tarantino, mette in scena Medea (1996) in cui la figura del mito greco viene incarnata da una donna posta in stato di carcerazione che parla con se stessa, rivolgendosi al muro, quando tutto è già accaduto; la vicenda si svolge a Corinto, che viene più volte nominata. Le allusioni al Mito, trasfigurato dal suo venire calato in una quotidianità fatta di umiliazioni e miserie umane, affiorano in molti punti, ogni volta che la donna afferma di essere innocente dei delitti che le vengono attribuiti. Quanto ai figli, ne viene negata addirittura l’esistenza. La lingua impiegata dal personaggio di Medea è sempre caratterizzata dall’uso di un linguaggio di registro basso. Assai diversa dalla precedente appare la nuova riscrittura del Mito in Cara Medea (2004), sempre di Tarantino: qui la protagonista è una reduce dal campo di concentramento di Sobibor che si muove, tra passaggi dati da camionisti e percorsi a piedi, alla ricerca del marito, come lei vecchio, umiliato e sconfitto dalla Storia (siamo qui nel desolato periodo del secondo dopoguerra). L’ombra di Giasone entra così in scena fino dalle prime battute di Medea. Sullo stesso archetipo si disegna dunque una nuova figura di donna, che si trova in un luogo e in un tempo differenti dalla precedente Medea e che non si annienta o si rinnega in una mortale rimozione del passato, anzi si accusa esplicitamente pur indicando il correo dell’infanticidio nel marito, che non ha mai voluto ammetterlo.

Tra i tanti meriti del libro di Carmen Lucia c’è dunque anche quello di avere riportato in superficie una tematica che ha coinvolto autori di diversi periodi e di diverse provenienze geografiche, tutti però affascinati da una figura mitologica sempre attuale ma chiusa nel rimosso.



COME SUGHERI SULL’ACQUA

I VERSI SONO IL TEMPO DEI LIMITI E DEGLI ARGINI

di Ariele D’AMBROSIO

sonetti Alfonso Guida
tavole Giuseppe Caccavale,
Anfora clandestina,
Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2024
pagine 126
euro 24,50
Info
www.avampostopoesia.com/alfonso-guida

I versi sono il tempo dei limiti e degli argini

Libro composito, di ottima fattura, essenziale nella forma, con una grafica di copertina che definirei minimalista. Molto elegante e con un colore beige delicatissimo, con un odore della carta ed una grana, così sottile al tatto, che è un piacere leggerlo e sfogliarlo. Per questo mi sembra opportuno menzionare chi ha contribuito a costruire questa degna cornice per le poesie di Alfonso Guida e per le tavole pittoriche di Giuseppe Caccavale. Sono: Antonella Cristiani per la cura editoriale, Odilon Coutarel (Parigi) per il disegno grafico, Alfa Grafica (San Sebastiano al Vesuvio) per la stampa, i caratteri sono Lexicon di Bram de Does, la Grafik di Christian Schwartz, la carta è Fedrigoni, Arena Ivory Rough 90g + 170g. Un libro di poesie e di immagini è anche tutto questo.

Sonetti, ci dice la copertina e inizio subito a riferire il già detto da tempo da Mario Santagostini: Perché, per quanto ritenuto da Dante una forma «poeticamente inferiore» rispetto ad altre più «nobili» (ad esempio la ballata) e accuratamente evitato da Leopardi, il sonetto si presta ad una straordinaria polivalenza di toni espressivi al punto da diventare la forma metrica italiana per eccellenza, esportata all’estero e copiata con grande successo. Il sonetto è utilizzabile sia per i componimenti «alti» sia per l’espressione dei sentimenti popolari: nessun poeta, di fatto, ha potuto evitarlo come una sorta di apprendistato o di abbiccì. È una struttura in grado di esibire una eccezionale varietà di pronunce: come un caleidoscopio nel quale riverberano e ritornano, prima o poi, tutti i colori. E la sua storia è inesauribile: allorché sembra «scadere» nell’abuso, il sonetto si ripresenta come forma primitiva e, in un certo senso, ineludibile.

Qui non ci troviamo nell’abuso, ma in una tradizione sperimentale che ha visto “giocare” con i numeri del sonetto grandi nomi della poesia contemporanea e non. Ne cito solo alcuni: sonetto minore o minimo quinario, quaternario di Sergio Corazzini e Giuseppe Ungaretti, sonetto con rima irrelata di Gabriele D’Annunzio, sonetto caudato di Giovanni Pascoli, sonettin col covon (sonettini col codone) di Carlo Porta, sonetto con rima ipermetra di Eugenio Montale, sonetto con rime consonantiche e consonanzate e sonetto duodenario sdrucciolo di Patrizia Valduga, sonetto con rime assonanzate di Luigi Chiurazzi, sonetto sotta e ’ncoppa di Libero Bovio, non senza ricordare “L’Ipersonetto”, magnifico libro del mio amato Andrea Zanzotto, e tralasciando le tante altre forme costruite e sperimentate in tempi assai più antichi.

Mi soffermo solo un poco su questi di Alfonso Guida, per poi abbandonare questa analisi volutamente frettolosa e dedicarmi al senso emotivo che queste composizioni mi hanno trasmesso. Sono spesso sonetti alterati che utilizzano quasi sempre endecasillabi e settenari sciolti, solo a volte fa capolino la rima, versi non sempre con accenti canonici e con qualche nesso vocalico forzato per la sillabazione. La numerologia gioca spesso col numero quattordici, assembla versi, ne aggiunge altri per spaziature necessarie da riferirsi a questa forma indimenticabile, e che usa, in questo caso, enjambement molto sapienti di cui poi dirò.

Alla fine delle ventisette poesie divise in quattro gruppi, le dodici tavole pittoriche di Giuseppe Caccavale e la citazione che conclude il suo intervento finale Perché?. È di Lorenzo Calogero: I detriti potranno fare / povere cose miracolose. Così voglio cominciare, perché un poeta affianchi un poeta ricordato da un artista.

Alla fine, sull’ultima pagina un piccolo cerchio che incide “Estate 2022”. È l’estate di San Mauro Forte in Lucania dove vive il poeta e dove si consolida l’incontro con l’artista. Non posso non pensare a Sinisgalli che ritrovo citato in un metaverso che riflette sulla poesia stessa: «Leonardo Sinisgalli era leggero, / leggerezza del tutto quando lievita, / la parola netta, gli accenti brevi, / l’ordine di riga e squadra. …», a Ignazio Silone: «Sarai Fontamara, terra arsa e bara, / collana smanierata e traversina / di metrò senza ombra, un tenero andare / che si colma di pianure distanti //…». Ma penso anche a Vinícius de Moraes e alla sua “arte dell’incontro”: giusti i ringraziamenti a Serena Di Lecce, giuste le tavole alla fine del libro, non usate come illustrazioni alle poesie, belle nei colori, nell’approccio alla natura: Davanzale del terrazzo, Veduta esterna dal salottino, Veduta del Bosco di Montepiano, Accettura, alcuni dei titoli e con tinte calde e accoglienti che sembrano messe d’impulso per parole lette e introiettate.

È infatti la natura di quel luogo, la sua storia, che avvolge questa poetica che si fa pensiero esistenziale e che si sviluppa e si espande in quello metafisico.

Un sonetto dei più canonici, per comprendere quanto questa forma, riempita di senso e di emozione possa essere di grande complessità e per questo di grande bellezza. La riscrivo per intero: «Senti il peso dei passi, / la storia nella voce dei ragazzi, / l’ombra che trattiene l’alba nei pazzi, / la mano che porta nel pugno i sassi. // Come il vento, a notte, dopo la pioggia, / come l’aria che scopre, lenta, gli occhi, / spoglia la pelle e al primo sguardo appoggia / la parola che aspetti il mondo tocchi. // La vita è l’ansia di fine dei giorni / che spezza i sogni e il fiato dei richiami, / la voce amata promette i ritorni. // Le ombre, come i cieli, abbassano i rami. / Sono un grido che dissolve i contorni / terrestri, tu che lontano in chi ami vai.».

Che si noti la sapienza nel costrutto sintattico, ma non è questo che importa, tutti i poeti sanno che nel “gioco” geometrico c’è l’architettura di quel sentimento trasmesso in quel modo, e come dice Giorgio Caproni Basta infatti far la così detta versione in prosa d’un qualsiasi verso famoso mutando l’ordine dei vocaboli perché l’incanto poetico il più delle volte sparisca.

Ci sono versi all’interno di alcune poesie che diventano il punto attorno al quale gira tutto il resto, sono versi che stupiscono perché spiazzano e ci fanno spaesati fino alla meraviglia, all’incanto che non cerca nemmeno più il senso od il significato. Ti lasci andare a quel suono, a quell’immagine, a quel profumo e stringi tutto questo tra le dita e ti basta così: «… conduci le ombre in un mondo di noci, …», «… Sta male la luce quando si spegne …», «… l’ombra che trattiene l’alba nei pazzi …», e condividi abbracci e tenerezze con chi ti racconta il suo profondo.

Enjambement dicevo, quella minima pausa, quel microscopico silenzio che non è solo esigenza di metro, ma è l’attimo d’attesa, l’invisibile rincorsa che cerca l’aggancio della nuova parola che ci raggiunge più grande col suo senso, più intensa, ancora più emotiva: «… So confidare ai quaderni, ma non vedo / nessuno e non mi muovo, sto seduto, // stanco e confinato in me stesso. Ho poche / metafore e il grigio ha colpito le iridi. …», «… Corre il passo di chi varca la luce / più oltre il tempo e traduce / le parole smarrite, le ombre fuse / tra le carte al nero delle ombre eluse.», «… I versi / sono il tempo dei limiti e degli argini, / la notte domata e chiusa nei volti / degli assenti in cui, muto, ti continui.».

Tutte poesie che andrebbero trascritte per intero, ma lo spazio è tiranno. A volte solo le parole di un poeta possono tradurre l’inquietudine che approda in una disperazione esistenziale che ci dice del tormento, un estinguersi disilluso che genera la forma tra il lessico e il ritmo, e salva nel bello la sua assenza che fa dell’aria un buco, una foiba, un silenzio anecoico: «… Poco ho raggiunto del mio volto. E adesso / non cammino, non ci sono più strade // nel paese. E le macerie hanno coperto / le case. … // Io sono stato cacciato dai morti / che non accettano più di parlare / per mezzo della mia parola. Questo // spiega il crollo dei ponti e degli specchi. / Dissepolto come un peso, rimosso / come un labirinto, mi sono estinto.».

Una metafisica terrena che superando l’ossimoro fa della morte una cosa di ossa, un aldilà che salva la consistenza tattile del suono, degli odori; perché la poesia salva il concreto. E Alfonso Guida con la sua forma che cerca limiti ed argini si fa riconoscibile, si fa distinguibile, ed oggi è un merito.

La poesia non conclude, ma inizia a vagabondare nella mente di chi legge, di chi la dice, di chi la ripete, e così mi piace cominciare: «… Tornare al mondo, senza inganno, intero, / cucire i lembi e lo iato, / saper spiegare il verbo che in sé nasce / senza significato. / Non c’è corpo. Nessun volo lascia orme. …».

Napoli giugno 2024