Se sei poeta metti sugheri alla rete dei pensieri. Così Mimmo Grasso fa parlare il Sebeto, il fiume sotterraneo che canta della storia e delle storie di Napoli.
di Ariele D’AMBROSIO
Sebeto la precedente edizione del 2008, con un’unica ‘b’; Sebbeto, questa del 2024, – Napoli, Colonnese Editore by Mazzei, 2024 – di Mimmo Grasso e di cui sto per dirvi, è col la ‘b’ raddoppiata. Perché questa scelta? Per indicarci subito il desiderio di recupero dell’oralità nella scrittura stessa, di quella forma parlata che col dialetto accoglie ed amplifica l’aspetto emotivo del dire. E subito la conferma nella buona introduzione di Nino Daniele che così scrive: Sebbeto non vuole essere letto ma ascoltato.
Non posso non chiosare, in breve, sulla tendenza che si va strutturando in diversi poeti della contemporaneità, di recuperare il racconto, e non solo per quell’oralità di cui prima, ma anche per essere testimoni storici del proprio tempo, recuperando così radici antiche e, nel contempo, bypassando la dimensione di un dire “riflessivo” che troppo spesso, purtroppo, si va perdendo in una deriva solipsistica e muta. E per ribadirlo, cito dal magnifico libro Papyrus di Irene Vallejo: I poemi orali trasmettono insegnamenti attraverso le azioni, sotto forma di racconti, non di riflessioni; le frasi astratte, infatti, sono tipiche della lingua scritta. Nessun poeta avrebbe pronunciato in pubblico una frase priva di appeal come “la menzogna logora la fiducia”. Al suo posto, avrebbe preferito raccontare la storia del pastore amante degli scherzi, che si divertiva ad allarmare gli abitanti del villaggio gridando “Al lupo! Al lupo!”.
Ovviamente questo breve commento è per analizzare certe poetiche che incidono nel nostro presente ed escludendo totalmente i facitori di righi in successione che pure ci raccontano, ma con la retorica dell’ovvio e dell’abusato e che considero scorie inquinanti di fondali marini, non avendo nulla a che fare con versi e poesie.
Mimmo Grasso con questo libro, è a pieno titolo un poeta narratore, che narra, per l’appunto, per essere ascoltato, e subito ho piacere a dire quello che già gli avevo attribuito per un suo importante precedente libro “ortaglia”: nella sua poesia non ci sono fronzoli né patetismi, ma solo profondità di senso e di immagini che ne fanno ogni volta un canto, una lirica ed un’epica insieme. Il ritmo non è mai neutro e la scansione sonora mi suona sempre perfetta, connotandosi in uno stile assolutamente riconoscibile. E questo è un valore per l’arte della poesia.
La bella copertina è iconica e metaforica. Racchiude nell’immagine – una pregevole fotografia di Giuseppe Pesce – tutto il senso che si coglie del libro e nel libro: “la convivenza degli opposti”. Si tratta della magnifica fontana di Spinacorona della metà del millecinquecento, detta anche ’a fontana d’’e zizze, poggiata sulla sua parete d’intonaco grigio disfogliato a chiazze più chiare di muro grigio e bianco. Già i primi opposti, ed è della fontana stessa, del suo marmo quest’insieme: la Sirena Partenope con le antiche sembianze dell’uccello Arpia ma con ali d’angelo, appena sinuosa in un lieve movimento d’anca, sulla sommità del vulcano Vesuvio a controllarne il cratere, mentre dai capezzoli delle sue mammelle sgorgano due zampilli d’acqua a spegnere il fuoco del furore del popolo napoletano per le troppe ingiustizie subite nel corso della storia: il furore d’una eruzione vulcanica; ai suoi piedi, sulla sinistra, un violino scolpito in altorilievo che rappresenta con le sue quattro corde gli elementi della tradizione ellenica e degli antichi alchimisti medioevali: la Terra, l’Acqua, il Fuoco, l’Aria. Sarà che il suono muto del marmo del violino rappresenta poi la Quintessenza di cui erano composti i corpi celesti? Mi piace crederlo: per la fontana e per la poesia. Non ci poteva essere copertina più pertinente.
“Convivenza degli opposti”, e ancora mi riferisco ad un ricordo della mia infanzia; mio padre che mi diceva di questo fiume napoletano ormai sotterraneo, sotterrato, tombato, ricordandomi che veniva etichettato con l’epiteto di Ciummo ’e mmerda. Così gli aveva detto suo padre e il padre di suo padre. Già da sempre inquinato e fatto diventare una discarica. Ma il fiume che porta scorie, per diluirle nella vastità del mare, pulisce e si fa carico del male, purifica, e lo fa mentre scorre, e mentre scorre canta.
Mimmo Grasso ha dato voce al sotterraneo, ha fatto cantare le scorie, ma anche i riflessi luminosi dell’acqua che scorre, ed ha mutato tutto questo nella complessa bellezza dell’arte ed è lui stesso diventato fiume che sussurra e dice, che grida il silenzio dei non detti, delle omissioni della storia, mentre ancora suona, per chi vuole ascoltare, lo scorrere della magnificenza e dello stupore di questa straordinaria città.
Dico subito che non è un libro che raccoglie poesie, perché il racconto è un poema – e senza che mi riferisca alla forma anglofona – un poema come nella migliore tradizione antica, che è cronaca e storia, riflessione ed emozione. Ed ho piacere a dire che la sensazione nello scorrere della lettura, è che tutto diventa presente: il passato ed il presente stanno insieme, si abbracciano, si rivoltano in ghirigori che fanno dell’organo invisibile, la psiche, un corpo tangibile, una realtà di tempo concreto. Una storia diventa altra storia, si muta in nuova storia, in uno scorrere continuo che ci rimanda al fiume dove comincia il nome.
Ho da dire che da tempo ho abbandonato le categorie del bello e del brutto, per rivolgermi a quelle della bassa, media ed alta complessità. Riesco a dire è bello solo quando la complessità è alta. In quelle della bellezza e della bruttezza c’è troppa variabilità di “giudizio” generato dall’incontro tra l’opera artistica e il suo fruitore: la sua cultura socioeconomica, quella sociale e storica del suo tempo, del suo vissuto, quella artistica, per dirne solo alcune. La più alta complessità, come ci dice Italo Calvino, colloca uno scritto in quella formula che definisce come “inesauribilità del testo”: più lo rileggi, anche nel tempo, e più scopri nuove cose, o cose che potresti comprendere ad una nuova e più distante rilettura. Mentre nella minore o peggio bassa o nulla complessità, il testo – o la poesia, la musica, la canzone, la pittura, la scultura, la danza, il canto, la performance e via dicendo – esaurisce in breve la sua forza di dire, spiazzare, emozionare, indurre riflessioni, per ridursi in breve in una scontata, ovvia, tediosa ripetitività. Ed in aggiunta, e sempre citando il noto e geniale narratore, non sarà mai così semplice scrivere poesie che tentino ogni volta di “fare entrare il mare in un bicchiere”.
In queste acque si muove la poetica di Mimmo Grasso, in questo libro, in questo poema, per una straordinaria complessità del semplice, la semplicità di un racconto diretto ed emotivo, e che non è un ossimoro. Quella semplicità che invece è consapevole punto d’arrivo di un percorso, e non facilità o accessibilità o agevolezza o comprensibilità specifiche di quelle ovvietà retoriche di cui prima.
Così comincia: «Vulesse ca, guardanno aret’ a me, / ce stesse, ncardellato, ’o nniente-chiù; / e i’ siscasse chiù e, isso, chiù–chiù // e subbeto ’e ricorde, ’o mma e ’o ppecché, / cu nu surdiglio ncapa: «’n simmo chiù. / pirciò, tienece a mente, chesto è ’o cchiù» …». Comincia con un canto, una poesia cantata divenuta canzone per la magnifica musica di Carlo Faiello – affascinante la stampa dello spartito sulla pagina pari di sinistra –, per l’interessante voce dello stesso poeta col suo timbro ’e terra che lo fa popolo e cantore, ed io soddisfatto di averlo spinto un po’ di anni fa a questa esperienza di oralità, proprio con questo canto.
Non poteva esserci inizio più incisivo per dirsi rapsodo, aedo, trobadore, bardo e dirci di quanto sia forte il desiderio di una poesia da dire e da ascoltare. Così come il recupero, all’interno della sillabazione, dell’antico metro greco-latino con tempi brevi e lunghi.
Da anni, d’estate, a Pioppi, una tortora m’insegue col suo anapesto rituale per richiamare la femmina: due suoni brevi e uno lungo ᴗᴗ‒, dove l’ictus, l’accento forte, cade sempre su quello lungo battuto dal piede di chi porta il ritmo, il tempo. Alcmane, antico poeta greco, dichiarava di conoscere le arie di tutti gli uccelli. Sarà nato così lo studio del ritmo codificato nella prosodia che vuol dire poi – πρός-verso e ᾠδή-canto – verso il canto. Ed è Mimmo Grasso che comincia a cantare col suo cardellino, recuperando in un baleno tempo e forma.
Cardillo ’ncardellato nato da un Cardillo e una Canaria, ed accecato per cantare ancor di più la disperazione e l’amore per la vita. Mio nonno amava questo uccello, mai accecato per fortuna, e lo ricordo in cucina nella sua gabbietta, con i semi di grano, la foglia di lattuga e l’osso di seppia per fargli pulire il suo piccolo becco cinguettante. La poesia che richiama i ricordi personali di chi legge, un altro aspetto che ho premura a sottolineare.
Seguono pagine in lingua italiana con il desiderio a pagina sedici e diciassette di innesti multilinguistici con il francese, l’inglese, il napoletano, l’arabo, il siciliano. Una nuova breve introduzione, per sottolineare le tante dominazioni che Napoli e il suo popolo ha subito nel tempo. Ma al di là di questo, e per un altro aspetto caratteristico della poesia, ci appare evidente il gusto di evidenziare i grafemi delle diverse lingue, segni mutati nel tempo che hanno codificato nei passaggi della storia suoni e significati, parole e immagini. Questo verso su tutti, con il gusto di tradurlo in suoni ritmati: «… miserere, miserere / ᴗᴗ‒ᴗ, ᴗᴗ‒ᴗ …», dove al piede anapesto si aggiunge un altro tempo breve e sempre con l’ictus su quello lungo della seconda ‘e’ di miserere, così com’è nella sillabazione, e a voler essere anche molto approssimativi, scrivendo su un pentagramma due crome in ᾄρσις – levare –, una semiminima in battere – θέσις, appoggiatura – con il suo ictus o colpo o accento forte, ed una croma finale sempre in levare. E la tortora mi canta con il cardillo cieco.
“La convivenza degli opposti” comincia a dirsi col tema del popolo. Ma di quale popolo si parla? Di quello saggio e popolare? Di quello infuriato in masse eterodirette? Di quello addormentato dai media di tutti i tempi? Da quello che consuma per esser consumato? Tutto convive e resta insieme: «… Il mio popolo ha un nervo scoperto / Il mio popolo è camorrista / Il mio popolo è Siani / Il mio popolo è don Peppino Diana / Il mio popolo è il capoclan Sandokan / il mio popolo è Giambattista Vico / Il mio popolo non è per la legge ma per la giustizia / Il mio popolo è Gaetano Filangieri che ispirò la Costituzione Americana / Il mio popolo si ostenta nudo e crudo come Masaniello davanti alla Madonna del Carmine / Il mio popolo agli angoli dei portoni ha chele di granchio / … / Il mio popolo è i lazzari che divorarono arrosto i cadaveri dei rivoluzionari del ’99 (“Che stronzata, ho pensato. Poi, vivendo nzevato con lui, mi sono detto: “vuoi vedere che era vero?”) / …/ Il mio popolo dice, come Gramsci, che “quando un cavallo caca, cento passeri mangiano a sbafo” / Il mio popolo non ama i suoi rivoluzionari perché nessuno di loro ha mai fatto un bel goal / Il mio popolo sfrutta i bambini perché i bambini non vanno in galera / … / Il mio popolo è l’Olivetti di Pozzuoli che quando ci passi davanti pensi “peccato!” …». E così via, continuando in un flusso ininterrotto per diventare verso prosastico, fiume di popolo che scorrendo porta con sé un passato illustre ed un presente di orribilità e di dolore, di ribellione e di pensiero. Poesia sociale, ma non solo, cronaca come dicevo, ma anche storia. E i versi si susseguono per accogliere man mano il fluido ritmo dell’endecasillabo: «… Città appezzottata / che fa il rigattiere nella storia / raccogliendo orazioni e pigolii / ai piedi di madonne senza mestruo / e scarabattolando porta un sacco / pieno di chitèmmorto e di scongiuri. …».
A pagina trenta-trentuno succede un fatto, che apprenderemo poi nell’Opificio a fine libro. Il poeta, calabrese di nascita, si riappropria della lingua materna, il napoletano, e comincia a tradurre, e il poema diventa bilingue. Sulla sinistra il napoletano, sulla destra l’italiano, e sempre nella corrispondenza dei suoi versi. Avrei fatto l’incontrario perché andiamo da destra a sinistra, sempre si spera, e l’italiano viene prima in questa scrittura, come mi ha riferito il poeta.
Ma scriverò l’italiano, e la sua traduzione in napoletano, procedendo anche a ping pong tra i due, ed userò il segno grafico <, della “forcina” verso sinistra, per indicare il napoletano, e > quella verso destra per l’italiano, e questo per il piacere di oscillare tra i due significanti.
Intanto, mentre leggo alla fine del libro l’Opificio, comprendo come le “scaglie”, i frammenti, i segmenti tra visioni e tempo, tra incontri e ricerche si rincorrono tra il colto e il popolare, tra i fonemi di due parlate che s’inseguono e si distanziano, si scontrano e si abbracciano tra il ritmo del piede e della tammorra, perché il mio battere il piede è analogo alla misura del “giambo”, “iàpto”, seguendo il battito cardiaco, così come lo stesso poeta ci scrive e ci dice. Ed allora i suoi riferimenti studiati ed introiettati come pulsar emotivi: le feste popolari, i tammurari vesuviani fatti conoscere da Carlo Faiello, il ricordo delle feste popolari, del gruppo de ’E Zezi, del mai troppo compianto Marcello Colasurdo, delle processioni dei Fujenti, la festa dei Gigli di Nola.
«… I fanciulli iniziavano a ballare / chi a destra chi a sinistra ripetendo / con le tammorre i numeri del cielo. – < ’E ’uagliune abbiavano a ’ballà / chi a destra chi a sinistra ripetenno / ’e nummere r’ ’o cielo ch’ ’e ttammorre. / Pe nuje era na danza ’o labbirinto, / nu juoco a votta-e-piglia … > Per noi era una danza il labirinto, / un gioco a piglia-piglia. … / … / so’ nventaje Teseo stu ’ballà, appujanno / ’e varche a Delo. … / > quando con le sue barche approdò a Delo. …». E l’allora e l’ora stanno insieme.
Ma ritorno al dialetto-lingua. Concordo con Mimmo in pieno che così scrive nel suo Opificio: Ho spesso letto e ascoltato cultori che definiscono il napoletano Lingua. Credo che una Lingua per essere tale dovrebbe essere in grado di esprimere non solo gli “affecta” e il vissuto ma concetti giuridici, scientifici, amministrativi, storici, filosofici, ecc. Ciò è avvenuto, a Napoli, parzialmente e solo per un breve periodo, durante il regno aragonese. E mi ci ritrovo col piacere di sottolinearlo, perché, per essere un po’ più lingua, il napoletano parlato e trascritto direttamente dal suo ascolto – vedi ad esempio molti testi contemporanei di canzoni neomelodiche, per non parlare dei testi della “musica” rap – dovrebbe almeno fare riferimento a grammatiche, ed a scrittori e poeti, anche contemporanei, da cui gli studiosi poi traggono regole e canoni pur fluidi nel tempo, e questo per non restare nella mediocrità di scritture imperfette nei loro grafemi e quindi nelle loro “traduzioni” sonore. Ma oggi si sa, l’uso iperveloce e superficializzante della tecnologia, fa sì che l’ascoltare e il vedere siano stati svuotati di senso perché mutati in meri slogan pubblicitari, insieme a estrapolati da scritture importanti, rese anch’esse frammenti retorici e abusati perché deprivati del contesto. E la lettura si perde per una “oralità” banalizzata in spot e niet’altro. Sarà tutto questo, genesi di nuovi linguaggi? Per una babele di approssimazioni e nulla più? Spero che anche Sebbeto di Mimmo Grasso, possa diventare invece un riferimento per chi vorrà scrivere bene in napoletano.
«… gente, gente, venite / fatemi un cerchio attorno / vi racconto una storia / tolgo la museruola < oi gente-ge’, venite, / faciteme nu chirchio / mo ve conto na storia / ma senza musarola / tenenno na mutrìa / addó saglieno ’e pprete / ca s’annozzano ncanna / serunte ’e sivo e ’a voce / s’ammesca che’ ’e ppantosche … > preso da un malumore / salgono a galla pietre / che si fermano in gola / impastate di sporco e la mia voce / si mischia con le zolle …». Ed è la voce di chi scrive mentre pensa di dire e raccontare a farsi zolla, e non mi meraviglia che il canto di Mimmo si sia fatto ’e terra. Ed è ancora su questi versi che mi sospendo un attimo, per dire della capacità dell’artigiano attento al dettaglio, e che si fa τέχνη preziosa lungo tutto il percorso del poema. La capacità di “tradurre” i settenari e gli endecasillabi sciolti in altrettanti settenari ed endecasillabi, e non è cosa semplice. Nel caso citato solo l’endecasillabo impastate di sporco e la mia voce diventa il settenario serunte ’e sivo e ’a voce.
Si faccia questo “gioco” tra significanti, leggendo ad alta voce e attraversando le sonorità dell’italiano e del napoletano e viceversa. E ci si stupirà cercando quale delle due ha un maggiore carico emotivo, ed ognuno attribuirà questa condizione al proprio vissuto, ai propri incontri. Ma per il poeta c’è anche una condizione ideologica, ed uso questa parola che si vorrebbe cancellare ma che indica lo studio sull’origine delle idee, e subito ne cito alcuni frammenti: «… Devo lasciare un poco questa lingua azzima, / questo italiano sempre con in gola / un nodo di cravatta. … < Aggi’ ’a lassà sta lengua ammazzaruta, / chestu ttaliano sempe c’ ’a cravatta / annurecata ncanna. …», ed ancora: «… aggi’ ’a tené ’o curaggio / ’e stà allerta int’ â storia / > con la lingua tagliata / da elisioni e da lettere / che solo si pronunciano / < (ce stanno ma nce stanno) / cu ll’ate ca so’ scritte / ma so’ ’e llettere mute / > ma sono quelle mute / con il fantasma ǝ … / < c’ ’o munaciello ǝ …». E non manca il gioco sonoro, e l’attenzione lessicale a questa nuova forma fluida che fa dei nuovi nomi forme di transizione tra maschio e femmina: né l’uno né l’altro o l’uno e l’altro insieme. Non manca il vocabolo d’invenzione o fatto proprio da altra fonte dimenticata, come ci avverte il poeta, – e questo non è raro in arte, e lasciando la buona fede a questo oblio tra i peccati veniali da scontare –: «… tra oralità-scrittura / < i’ so’ l’oralitura …».
Ma ritorno all’”ideologia”, e per dire quanta poesia emotiva c’è all’interno del racconto e della riflessione: «… Agguantate, Mimì, si si’ pueta / miette ’e suvere â rezza r’ ’e penziere: / > Se prendi fiato e te ne vai giù in fondo, / trovi merda di piombo. Ascolta un po’: / < venetteno na vota p’ ’o Gran Tour / tanta figlie ’e papà. Uno era Goethe. …» Ma riscrivo questo verso in italiano, perché è qui che mi prende il magone: «Proteggiti, Mimì, se sei poeta / metti sugheri alla rete dei pensieri.».
L’ansia del popolare s’incontra e non si scontra con il colto, ma l’inquietudine, forse il fastidio, la dicotomia sempre sussiste quando si attribuisce alla cultura l’elitario. Ma è sempre stato così, anche Béla Bartók, per fare un esempio tra molti, ha utilizzato temi popolari per trasfonderli nella sua musica colta. E questa musica avrà parlato a tutti? Parla a tutti? O come dice Oscar Wilde è il popolo che deve diventare artistico perché l’arte non è mai popolare? Ed aggiungo: che deve essere aiutato a diventare artistico, perché l’arte complessa non è mai popolare.
Continuo sulla traduzione in poesia ed è per questo che mi soffermo solo un po’ a chiosare, bypassando l’abusato e retorico detto del tradurre come tradire. Poiché ho sempre inteso la poesia sorella della musica, ho sempre pensato, e già da tempo teorizzato, che il tradurre in poesia equivale alla trascrizione musicale per altro strumento. Ed è per questa convinzione che mi faccio supportare da Giorgio Caporoni che così bene dice e fa capire con la sua complessa semplicità: In caserma quand’ero soldato io, i soldati si avvertivano con una tromba – oggi non lo so, credo vi siano gli altoparlanti –, si chiamavano trombetta: era l’ora del rancio e il tenente d’ispezione o sergente di giornata diceva alla tromba: «Suona il rancio». La tromba emetteva un segnale secondo un codice stabilito, un ritornello, il soldato lo conosceva e si metteva in fila per prendere il rancio, con la gavetta in mano. Supponiamo che un sergente di giornata un po’ estroso, invece di far suonare quel segnale dalla solita cornetta lo facesse suonare dal flauto, magari suonato da Gazzelloni, è vero sì che il soldato percepirebbe il comunicato diciamo pratico, però rimarrebbe forse a bocca aperta con la gavetta in mano. Cioè percepirebbe un altro significato che è il significato musicale. […] Prova ne sia l’enorme difficoltà della traduzione d’un testo poetico, dove la parola sì può conservare intero il senso puramente lessicale. Fino a un certo punto, […] Ma sicuramente perde la sua capacità di generare gli armonici cui ho accennato.
Anche qui il senso di questo poema dove Mimmo grasso già opera la trascrizione da un italiano d’uso in un italiano in poesia, per ritmi ed accenti, lessico e sintassi, ma il secondo passaggio è da uno strumento ad arco come la viola che viene suonato sfregando coi crini le sue corde, al pianoforte che percuote le corde coi propri martelletti, perché il napoletano è lingua anche molto tronca che batte sopra i tasti il proprio suono.
I temi si dipanano mentre il fiume scorre nascosto, e solo un poeta lo può ascoltare, perché poggia l’orecchio sulla terra come un indiano Sioux che ascolta il fiume, fuggito e libero dalla sua riserva.
Solo brevi frammenti, per indicarne la molteplicità: i piedi che camminano e cosa sono i piedi «… il piede è solo un arto / il piede è un ignorante / < se votta sempe nterra / ê vvote fa miracule / > cammina sopra l’acqua …»; l’analisi e la storia di Napoli e della sua antica Grecia: «… Cammina assieme a me anche Giordano; / < p’ ’o scuorno tutt’ ’e sante r’ ’e cappelle / > nelle cappelle i santi per lo scorno / nascondono la faccia. Sconsacrato, / faceva finta – buon napoletano – / ch’era impazzito per poter pensare. / < ca ’a capa ’n era bona pe cuntinuà a penzà. …»; «… «Questo è un problema nostro / – rispose pancia a pancia l’ateniese – sappiamo / che lupo non azzanna un altro lupo / e, poi, il diritto fra le genti è quello / < r’ ’a cunvenienza: i’ te pozzo affucà / ma me sto cuieto si me può mpiccà. …». E tra Virgilio e Leopardi, Benedetto Croce, Vincenzo Cuoco, la Piedrigrotta di Francesco Gangiullo rientra da lontano con la sua declamazione dinamica e sinottica: «… se sciacqua ’a vocca primma ’e sentenzià, / > fa i gargarismi e, dopo, la sentenza: / < Pullecenella c’ ’a voce a pivetta: / < > perepèperepèperepè / parapàparapàparapà. …», e l’antico asticcio, fa capolino da Giacomo da Lentini a Gigi Pisano: «… È lingua tutto spirito d’aceto, / è una lingua ex-voto che s’affaccia / < ncopp’ â storia facenn’ ’a guarattella, / > sulla storia imitando marionette, / … / ma chiamma il pane ’o ppane, neutro, inerte, / < cu doje p, comme poppa, pippa, pappa / pecché p-P pePpeja, te regna ’a vocca, …».
«… Questo popolo cardellino con le spine negli occhi / < Stu populo cardillo ch’ ’e spine rint’ all’uocchie / > sconvolse un giorno piazza dopo piazza, / < ammuinaje na vota tutt’ ’e piazze / > mandò l’Inquisizione a fare in culo / < e mannaje a fà nculo ’a nquisizione …»; «… Quanno sponta la luna a Marechiaro / i’ m’allummejo. Ngialluta e amarantata / > s’alza un canto tra fronde di limoni / acerbi … / < comme a limone acievero na fronna va spuntanno, …». E la luna ogni tanto spunta lungo la storia del fiume, insieme al cardillo cieco che cinguetta, come fossero cardini e cerniere di questo lungo canto, lirico, epico e romantico. E mi sono chiesto perché il poeta abbia preferito il verso Quanno sponta la luna a Marechiaro e non A Marechiaro ce sta ‘na fenesta, due versi della famosa poesia-canzone di Salvatore Di Giacomo, quattro strofe pentastiche di endecasillabi a rima alternata, musicata da Francesco Paolo Tosti. Così avveniva una volta per poesie che si sarebbero cantate. Perché mi sono chiesto? E così mi sono risposto: perché il Sebeto è luna e non finestra, perché Napoli è una finestra di luna che riflette, vera come il teatro che “finge” per amplificare le sue verità nascoste.
Ancora altri temi: gli amici intellettuali, più noti e meno noti, che da incontri personali diventano storia della città: Aldo Masullo filosofo, Riccardo Dalisi artista, Raffaele Rizzo drammaturgo e poeta, Antonio Vitolo psicanalista e poeta, Jack Arbib ricercatore di tradizioni. Ma di tre amici, anche a me cari, ne riporterò dei versi: Antonio Sgambati allestitore di libri d’artista, Vittorio Avella maestro incisore, Giuseppe Tortora filosofo.
«… Ho danzato, Tonì, una tammurriata / per sfogare una rabbia a quarantotto / < ma sto sempe ncazzuso, cu sti mmane / > ma sono sempre uggioso, con le mani …»; «… «Vittorio sta giocando coi colori» / e ti portano in dono una scintilla, / un pugno di sabbia, un mestolo / di morsura salata, ferro e stelle. / < «Vittorio sta pazzianno ch’ ’e culure» / e te portano ’a nferta ’e na scintilla, / na vranca ’e rena grossa, nu cuppino / ’e murzura salata ’e fierro e stelle. …»; «… Il problema non è, Peppe, il pensare / < ’O fatto ’n è ’o ppenzà, Peppi’, è ’o ccome / > ma il come vanno uno dietro l’altro / questi pensieri, il come del linguaggio, / l’impalcatura dove arrampicarsi / mentre butti i rampini a casaccio. / < vuttà ’e rampine p’addó cuoglie-cuoglie. / … / letto di fiume asciutto dove scorre / prima o poi l’acqua che ti porta a galla / le immagini che hai visto e che hai buttato: / neanche il rigattiere le ha volute. …».
Chi vuole ancora la poesia, se anche il rigattiere non la vuole? Ma come bene dice Valerio Magrelli io penso che non accadrà, perché esiste quasi una funzione biologica, per cui da qualche parte del corpo c’è sempre un piccolo numero di cellule dedicate, votate per così dire, alla cura del linguaggio.
Non posso eludere il tema delle emigrazioni forzate: «… Buttati a mare, luna, al magrebbino / esce sangue dal naso / ed ha sabbia negli occhi, / o luna che ti spogli, / luna piena di luna, / luna con doglie di luna, / sfibrata in una duna … / < Vùttate a mare, oi luna, ’o magrebbino / tene na botta ’e sango / e ’a rena rint’ all’uocchie, / oi luna ca te spuoglie, / oi luna chiena ’e luna, / luna cu doglie ’e luna / stracquata int’a na duna …». E vorrei trasmettere la sensazione di quanto il napoletano, per chi lo conosce, arrivi con una forza struggente, con una incisività ritmica che l’italiano non riesce a trasmettere, perché c’è una musica in più, malgrado questi versi non abbiano la scansione di finali tronche, ma tre rime baciate piane e lievi.
Non si dimentica il sociale. Quello alto però, non quello schierato dei partiti. Ed anche la poesia si fa politica: «… Napoli ha il destino di n.n., / nessuno ha un nome o tutti / hanno lo stesso nome. Sappi, dunque, / che non c’era più spazio a seppellire / i morti di colera, merdaioli, / < e all’architetto Fuga ricette Ferdinando: / «scavame tanta fuosse quanta juorne / stanno int’ a n’anno e, po, miettece pure / n’ata fossa pe ll’anne bisestile». / > Era un bel cimitero verticale. / < Era nu cimitero verticale. / Chi schiattava, accussì, ’o primmo gennaio / ferneva rint’ â fossa nummero 1; / chi mureva ’o 18 febbraio / ’o mettevano int’ â quarantanove. / > Capitava che chi andava a pregare / per un parente suo, requiemeterna / la diceva per tutto il condominio. …». E gli endecasillabi, quasi sempre a maiori, si rincorrono sempre dall’una all’altra parte, mentre il verso, e all’architetto Fuga ricette Ferdinando, un alessandrino-martelliano di due emistici settenari, scorre particolarmente fluido per una nuova livella che va oltre Totò. ’A livella, poesia del nostro comico più amato, e come non ricordarla, ma per questo affrancati da una sua “popolarità” obsoleta, abusata, straziata da attorialità folkloristiche di cui potremmo sinceramente farne a meno. Per questo ringrazio Mimmo Grasso attento al popolare, ma che attraversa col fare colto di una poesia scevra da retoriche e da luoghi che ormai sono comuni.
Mi avvio ad una conclusione, versi che mi hanno favorevolmente spiazzato, anche stupito e spaesato. Un pensiero mistico, critico sulla condizione dell’uomo e che si fa metafisico, ma intriso del corpo di chi vive. Il corpo che sottende e vibra in tutto il poema, che dice e canta col suo fiume, che dice della carne, della sua inquietudine, della sua curiosità, della scoperta, della prova, e del senso della sua sofferenza: «… I tuoni della guerra per i campi / caddero dalle vette dei vulcani. / Voce del sangue unisce padre e figlio, / il padre ora voleva il sangue di suo figlio. / < So’ mago e veco bbuono quantu sango / adda scorrere ancora pecché l’ommo / appartene â natura e sta natura / è cannibbale: ròseca se stessa: / > ogni creatura vive se divora / un’altra. È la legge. Il Padreterno / ci invidia perché è eterno, / per provare il sapore della morte / scolò sopra una croce. Passerà / l’eone Gesù Cristo e salirà / Lucifero glorioso, interrato / al corso Malta nella fossa 0. / < pe pruvà comm’è ’a morte se mettette / a sculà ncopp’ â crocia. …». Ed il poeta è mago perché pensa inquieto, e cerca a destra e a manca, e dice anche tra gli spazi delle strofe dove il silenzio è pausa, è senso, è sospensione per cercare una possibile propria consapevolezza. E nel mio immaginario il rimando è al Nosferatu del magnifico film di Werner Herzog. Un Nosferatu stanco, melanconico, depresso del suo sempre vivere in una drammatica e perenne ricerca di sangue, in una ripetizione costante e insopportabile. Ed allora l’invidia anche della morte. L’invidia, la gelosia, commisti l’uno nell’altro nella geloinvidia, il sentimento più comune e frequente dell’essere umano. Ed ora anche del Padreterno, come se la sua stessa creazione, l’essere umano, gli sottraesse qualcosa, come se gli indicasse un suo possibile limite. Un Dio masochista che pur di essere “completo” vuole provare, attraverso il Figlio parte di sé stesso, il dolore raccapricciante della malattia e della morte? Una sorta di suicidio per provare cosa vuol dire essere umano? Da Abramo pronto a uccidere il figlio Isacco per dare prova della fede e dell’ubbidienza a Dio, al Padreterno cristiano che si fa figlio inchiodato sulla croce per i peccati del mondo, dall’Antico al Nuovo Testamento, solo un poeta e la poesia potevano raggiungere l’estremo di questi paradossi.
Quante storie, quanta storia, e quanta complessità, per questo quanta bellezza, mentre il finale del poema resta in italiano, sulla pagina pari di sinistra, con il solo verso in napoletano della canzone antica: «… Quanno sponta la luna a Marechiaro / il pio Sebeto splende alla mia pace / di ciottolo buttato nel futuro / che non sa fare cerchi …». E il tempo si è fermato nel presente che fa del passato e del futuro un’invenzione: fatica della parola e del pensiero.
Pioppi luglio 2024