Guida Galattica per i Lettori | Marzo 2025

- AMICO ROMANZO I giorni di Vetro di Sara CARBONE
- SIPARI APERTI Oscià. Storie e leggende di Lampedusa – Cunto teatrale di Mirella SAULINI
- COME SUGHERI SULL’ACQUA Le foglie fluttuano nei cieli, il vento tace di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
I GIORNI DI VETRO
di Sara CARBONE

I giorni di Vetro, Torino, Einaudi, 2024
Redenta e Iris sono le due voci narranti attraverso le quali Nicoletta Verna, nel suo ultimo romanzo, I giorni di Vetro, edito da Einaudi nel 2024, racconta le vicende vissute, oltre che da queste due donne, dalle loro famiglie e da tanti altri personaggi, fra Castrocaro e Forlì, dall’inizio degli anni Venti del secolo scorso fino ai primi anni dell’immediato secondo dopoguerra.
Redenta è venuta alla luce il 10 giugno 1924 a Castrocaro, lo stesso giorno in cui è rapito e ucciso il segretario del Partito socialista unitario, Giacomo Matteotti, mentre Iris è nata nel 1923, a Tavolicci, località romagnola sempre in provincia di Forlì – Cesena. Prima di Redenta, sua madre ha dato alla luce due bambini nati morti e una bambina che è sopravvissuta al parto una sola notte; lei, invece, è nata con la «scarogna» addosso: trascorrono diversi anni prima che qualcuno possa sentire la sua voce quando, quasi profeticamente, pronuncia la parola «assassino»; dopo aver contratto polio, resta offesa a una gamba, la «gamba matta» che la tormenterà con dolori atroci durante tutto il corso della sua vita. Sacrificando il suo onore di donna, salva Bruno, il ragazzo col quale ha vissuto anni della sua infanzia presso la nonna, la Fafina, che si è presa cura di questo trovatello e della nipote mentre sua figlia sconta anni di carcere per aver attentato, in passato, alla vita del futuro marito sorpreso con un’altra donna. La sera di san Rocco, infatti, tre fascisti, alla parata militare, vengono coperti di letame e ora vogliono che Bruno, il responsabile dell’offesa, paghi il torto ma Redenta testimonia di essere stata col ragazzo nell’arco di tempo in cui si sono svolti i fatti. Bruno così si salva e di lui si perdono le tracce; scoppia la guerra e, contro ogni previsione, Redenta si sposa. Iris, invece, molto precocemente, inizia ad assistere sua madre nell’attività di insegnamento ai bambini del paese e si prende cura del fratello minore. Fortificata nel carattere e intelligente, dal momento che «l’intelligenza è madre di qualunque destino», lascia Tavolicci e raggiunge Forlì, «il cittadone», entrando al servizio di una famiglia di marchesi: la padrona è bella, elegante ed eterea; suo marito è un medico abbastanza importante che da qualche tempo non esercita la professione perché radiato dall’ordine, avendo rifiutato la tessera del Partito fascista. Mentre si innamora di Diaz, il factotum dei suoi padroni, la storia e la guerra la travolgono e lei, che assume una coscienza civile e comincia a sentirsi «sommersa dai morti e dai soprusi», affianca Diaz nel comando di una banda partigiana nella quale, un giorno, chiede di entrare Aurelio Verità, cognato di Redenta.
Apparentemente indipendenti, i destini delle due donne sono collegati a un uomo bellissimo, statuario e dal portamento elegante; è Amedeo Neri, figlio di uno squadrista del biennio rosso. Noto con il nome di Vetro, è diventato comandante della legione Benito Mussolini di Forlì, città nella quale Iris lo ha incrociato, quando ha visto uscire dal Grand Hotel e non ha avuto il coraggio di uccidere, Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate della Repubblica di Salò. Redenta lo ha già conosciuto qualche anno prima, a Castrocaro; suo padre e Vetro sono diventati amici durante la campagna d’Etiopia e, ora, sembra che un terribile segreto li tenga uniti.
Ambientato nei luoghi che hanno visto nascere il fascismo ma che sono stati anche scenario di tanti orrori perpetrati dai nazifascisti dopo l’8 settembre – a Tavolicci, nel luglio del 1944, si consuma una delle più grandi stragi in cui perdono la vita 64 civili -, il romanzo incrocia fatti realmente accaduti e vicende verosimili di cui sono protagonisti molti personaggi, tutti accuratamente caratterizzati e con un loro spazio nella vicenda, che assumono consistenza e si ispessiscono con il procedere degli eventi. A essi si affiancano presenze, creature frutto della superstizione e del folclore le quali nutrono sia il racconto popolare sia la capacità di Redenta di vedere oltre il reale. Ai primi fa capo, emblematicamente, il medico di Castrocaro, il dottor Serri Pini, presso il quale, la gente va «per le cose che si possono guarire»; le seconde sono rappresentate da Zambutèn «un erudito di piante e radici e intrugli che Dio sa cosa», il quale ha guarito addirittura la moglie del duce, dopo la nascita del figlio Bruno, e ha predetto la nascita di Redenta e delle sue due sorelle minori, Marianna e Vittoria. Ognuno dei personaggi contribuisce a delineare, con il suo carattere, le sue convinzioni e il suo fare, il ritratto della società italiana durante il ventennio; il nome di ciascuno, spesso, ha un alto valore simbolico. Primo Barbieri, padre di Redenta, uno che «smadonnava» e diceva che «se le mogli fossero state una cosa buona, Dio ne avrebbe avuta una», è un convinto mussoliniano, sempre “primo” e senza tentennamenti a coinvolgersi nella causa fascista; non sa resistere alla “febbre” della carne e il suo machismo, tipico del ventennio, oltre che per i continui incontri con donne diverse da sua moglie, si manifesta attraverso i modi con cui tratta queste ultime, l’abitudine al bere e la maniera di affrontare i matrimoni delle figlie. La sua dichiarazione d’amore alla futura moglie, pronunciata all’orecchio di lei, che è invasa da un odore nauseabondo di vino – «per una donna come voi, io mi ammazzerei» – richiama quasi la stessa atmosfera di violenza e bestialità, con la quale si racconta che Benito Mussolini abbia chiesto in moglie Rachele Guidi. Contrasta con questa figura, quella di sua suocera, la Fafina, una donna di cui “si era perso lo stampo” ma che nessuno avrebbe voluto in casa, tra i piedi perché «comandava a bacchetta e contava più di un uomo». Lei, che ogni volta che le ritornano alla mente gli anni del biennio rosso prega Gesù Cristo affinché perdoni «i fascisti e gli altri per il sangue che [hanno] sparso», ha in mano i fili della regia della storia familiare ed è l’unica in grado di tenere a bada Primo e i suoi furori politici. Bruno, il trovatello allevato dalla Fafina, uno che guarda prima ciò che è giusto e poi ciò che gli conviene, assieme al signor Verità, sono emblema della coscienza resistente al clima di soprusi e sopraffazione che il regime ha legittimato a tutti i livelli sociali. Iris, così come Vittoria, l’ultima sorella di Redenta, incarna il riscatto della donna in una società dominata dagli uomini, attraverso il coraggio, il lavoro e l’istruzione e non è un caso che le ultime battute del romanzo siano affidate proprio a loro due, alle uniche donne che hanno avuto il coraggio di andare via dai luoghi nativi – la prima va a Forlì, la seconda a Firenze -, e di affrontare l’ambiente della città in tutta la sua grandezza spersonalizzante e disorientante. Non tutte le donne intelligenti, infatti, ce la fanno in un’epoca in cui il “maschio forte” domina su tutto: la “madama” del bordello che frequenta Primo Barbieri ha provato a fare la maestra ma poiché, da giovane, era una “bella figliola” e tutti i maschi “le davano addosso”, si è votata con rassegnazione e dignità a fare il mestiere che fa.
Alcuni personaggi restano confinati nel racconto di Redenta, altri in quello di Iris e altri ancora oscillano da una parte all’altra della storia originando una dimensione quasi a specchio, calandosi nelle rispettive vicende e adeguandosi quasi, ora allo stile del dettato dell’uno ora a quello dell’altra. Redenta, infatti, racconta con maggiore lentezza anche se, a volte, la storia procede per impennate improvvise; a lei, del resto, che è nata priva di fortuna ma gode della pietà che le fa vedere ciò che gli altri non vedono, è affidato il compito di sciogliere le vicende e di redimere quasi un’umanità caduta nel baratro dell’abbrutimento e della violenza. Il racconto di Iris è tutto un procedere velocissimo; nei capitoli affidati alla sua voce, le ellissi temporali sono sovrabbondanti, salvo quelle pause in cui si ferma a riflettere perché se a Redenta è concesso il privilegio del “sentire”, a lei, invece, è stato concesso quello dell’“analizzare”.
Una moltitudine di personaggi secondari ma non per questo minori – da Banì, un paralitico in carrozzella che chiede la carità di fronte alla chiesa, a Zucó dla Bolga, il bambino del rione che gioca con Redenta negli anni dell’infanzia -, assicura al romanzo la dimensione della coralità; campeggiano presenze della tradizione popolare come il folletto Mazapegul, che appare di notte per cercare donne belle e fanciulli, e Guidarello, l’affascinante cavaliere vissuto a Ravenna mille anni prima, che ora vive sotto forma di statua e garantisce il matrimonio entro l’anno a ogni fanciulla che ha il coraggio di baciarne l’effige. Tutte le creature irreali e i fantasmi che si manifestano via via nel romanzo – come i fratelli morti di Redenta, che le appaiono spesso nei momenti in cui la morte sembra essere a lei più vicina -, contribuiscono non solo a restituire la dimensione folcloristica e superstiziosa della società contadina italiana di quegli anni ma ingrossano quella sensazione di precario, di fatalismo e di tragedia incombente che deve aver percepito chi ha vissuto in un’epoca, quella dei “giorni di Vetro”, in cui la violenza è stata legittimata a strumento per raggiungere il potere e preservarlo. È il fatalismo, il “destino”, al quale i protagonisti di quegli anni hanno fatto ricorso per giustificare certe scelte e compiere certe azioni, lo stesso fatalismo responsabile di un complicato intreccio narrativo, ricco di fatti le cui cause sono così difficili da capire «che solo il Signore dall’alto poteva distinguer[le]».
Tutto contribuisce a raccontare gli anni della dittatura in Italia, dal titolo assegnato alle diverse parti in cui è organizzato il romanzo – “Giovinezza”, “Destino” … -, al linguaggio per il quale la Verna opera un vero e proprio miracolo di conversione ogni volta che muta la voce narrante. Il lessico di Redenta, che è rimasta a Castrocaro, è caratterizzato da espressioni e modi di dire del dialetto romagnolo (quaioni, pidria, braghira, gazzamaia…); quello di Iris, che è andata in città, si è evoluta e ha assunto una coscienza politica e civile, concede meno alla parlata locale e risente di chi ha compiuto la scelta di unirsi alla resistenza partigiana e, dunque, a un’esperienza “unificante” dal punto di vista non solo morale ma anche culturale. Mentre l’uso dell’indiretto libero domina dalla prima all’ultima pagina (Mio padre aveva provato a chiedere in giro, ma di quel bastardo, sbuffava, non c’era l’ombra…), affiorano qua e là veri e propri debiti letterari che contribuiscono ad arricchire uno stile pieno, corposo e fitto di parole significanti. «È una questione privata» risponde Diaz a Iris che gli chiede conto di certi suoi comportamenti ed è la stessa espressione che la donna ripete a se stessa quando, rosa dalla gelosia, vorrebbe trovare una spiegazione alla ferma volontà di Diaz di salvare Redenta, portandola via da Castrocaro. Al lettore, tuttavia, non è dato sapere, se non nelle battute finali, quale sia il vero legame che unisce Diaz a Redenta, se a legarli sia la stessa “questione privata” dei personaggi dell’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio del 1963 o un debito di riconoscenza o, ancora, un legame di tipo diverso che si evince solo dalle parole di Vittoria, la sorella minore di Redenta, tra i pochi sopravvissuti ai “giorni di Vetro”.
SIPARI APERTI
OSCIÀ. STORIE E LEGGENDE DI LAMPEDUSA – CUNTO TEATRALE
di Mirella SAULINI

Euro 10,00
Con questo testo Antonio Tramontano s’inserisce nella tradizione dei cuntisti come ‘raccontatore’ di un’epica nuova, quella degli abitanti dell’isola di Lampedusa. Un tempo Lampedusa, la Lipadusa sulla cui terra i paladini si scontravano con i saraceni, era soltanto un frammento, segreto a molti, di quella Sicilia che Giuseppe Tomasi, che proprio dall’isola di Lampedusa prende il proprio titolo nobiliare, nel Gattopardo definisce, pur se con un diverso significato, “quest’isola segreta”.
Oggi di segreto a Lipadusa non c’è più nulla. Le immagini drammatiche dei migranti che approdano, e quelle sconvolgenti dei corpi dei naufraghi, la portano alla ribalta della cronaca quasi ogni giorno.
L’emigrazione-immigrazione Italia-Africa e viceversa è il filo attraverso il quale passa la connessione tra i personaggi. Tonino, detto l’Africano per aver scoperto che un giorno Lampedusa, migrante dunque essa stessa, era parte di quella placca africana alla quale, un altro giorno, si sarebbe riunita, Cocò, l’emigrante del progetto irrealizzato, distolto da zù Nicola, il vecchio emigrante ritornato, sospeso, come il pescatore del Vecchio e il mare di Ernest Hemingway, tra realtà e mito e Luana, la nobile africana, l’emigrante vera che, come tanti suoi ‘fratelli’ sognava di trovare “l’Americaaa!” (p. 20) ed ha trovato soltanto una terra straniera nella quale è diventata suo malgrado, quella che tutti gli uomini dell’isola chiamavano “Luana, bum bum? Mimando con il pugno chiuso l’atto” (p. 15).
I singoli canti-capitoletti sono titolati da numeri. Nell’ultimo, il numero Otto, Lipadusa, la terra delle battaglie contro gl’infedeli dove nella leggenda è arrivata “la bedda Angelica” (p. 31) dei cantari di Tonino l’Africano e Lampedusa dove, nella storia, è approdata Luana, la “figghia di un Capotribù” (p. 26) fuggita in Europa per imparare a suonare il pianoforte, in qualche modo si confondono.
In quella realtà surreale e come sospesa, Luana suona e suona; suona una musica dolce e di pace verso l’Africa. Finalmente non è più una storia di cadaveri. Storie o leggende che siano poco importa, ci dev’essere però qualcuno che le racconta, qualcuno che, come Tonino l’Africano, è felice perché “tiniva una buona storia da raccontari ai picciotti dell’isola chi erano filici di ascortari” (p. 34).
Come ogni testo destinato a essere recitato davanti a un pubblico, sia esso quello dei pulpiti, dei rostri o dei teatri, anche Oscià, alla semplice lettura non è davvero sé stesso. A maggior ragione, essendo esso un cunto che, proprio in quanto tale, ha bisogno di gesto e parola, di scià, il ciatu, il respiro che dà il titolo al libro. Anche trasformando il testo in imago agens nella propria mente infatti, il lettore riesce a creare soltanto immagini prive di parola, di respiro e di ritmo. Così il testo continua a perdere qualche cosa; perde molto, perde poco? La risposta si può avere solamente vedendolo, e ascoltandolo, rappresentato sul palcoscenico!
COME SUGHERI SULL’ACQUA
PARALLAX
di Ariele D’AMBROSIO

Parallax
Milano, De Piante Editore, 2023
Pagine 192
Euro 18,00
Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Nancy_Cunard
Le foglie fluttuano nei cieli, il vento tace
La copertina subito mi attrae. Un volto di donna sensuale verosimilmente distesa su di un letto, naturalmente tricotica – se questo vocabolo esistesse –, non ipertricotica, e questo mi rincuora in tale mondo occidentale ormai glabro di pelle e di eleganza. Nel risvolto di destra l’immagine è completa: la donna sostiene il proprio capo con la mano destra e il braccio alzato poggiato su due cuscini morbidi e accoglienti; il quadro è di Christian Schad del 1929: s’intitola Mezzo Nudo. Nella scelta di questa immagine colgo anche un’intenzione simbolica e metaforica. Da Frida Kahlo a Patti Smith, mostrare i peli del proprio corpo è stata sempre, per un certo tipo di donna, una dichiarazione di verità, di libertà, di autonomia, e gli artisti hanno sempre avuto la necessità di esprimerla, di sottolinearla anche col proprio corpo se necessario. Nancy Cunard, di una estetica lunga ed elegante, sottile e gotica, quasi una scultura vivente di Giacometti, ha vissuto in questa verità fatta di scelte spesso radicali, dicotomiche, su un substrato di fragilità e di passioni estreme. E così è la sua poesia.
La Cunard è un poeta che pubblica dagli anni venti. Muore nel 1969. E mi chiedo: perché pubblicare nel 2023 questa silloge antologica di poesie estrapolate da varie raccolte di anni passati? E perché recensire questo libro? Semplicemente perché è un gran poeta, e perché chiarisce a noi, oggi, le radici della poesia contemporanea, sia nella forma che nella poetica che esprime.
La lingua madre è l’inglese. L’ottima cura, la traduzione e la prefazione sono di Annalisa Crea. Ed è in modo reiterato che, ogni volta che mi trovo a leggere poesie tradotte, non posso fare a meno di ripetere quanto ho scritto più volte: al di là del tradimento, definizione abusata ed approssimativa, preferisco parlare di Trascrizione per altro strumento, di Traslazione, Dislocamento, Trapianto, Movimento, Emigrazione, e per ricordare Enzo Moscato di Tradinvenzione. La lingua come corpo che si va a collocare in nuove spoglie.
Ma subito in quarta di copertina e a pagina quarantatrè, da Outlaws del 1921 «”Oh Dio, fammi incapace di preghiera, / Troppo animosa per supplicare, troppo granitica / Per sentire lo sfregio del pericolo! Fa’ che il mio cuore / Si rinsaldi sì da reggere il dolore, / E che io soffra da me, senza perdite. / Che sorregga da sola il vecchio mondo / Su spalle più possenti di Atlante. / Fammi simbolicamente iconoclasta, / L’Anticristo ideale, il Paradosso”». C’è sempre una Maiuscola a inizio verso, e spesso accade anche per altre poesie, ma non è una forma acrostica, è solo un uso grafico, e il desiderio di dare un inizio inciso e netto ad ogni verso. Qui l’antipreghiera che prega, qui si squarcia il corpo ossimorico, dicotomizzato per una vita miracolosa e consapevole della sua stessa sparizione inaccettabile, qui il paradosso che fa del poeta una poesia vivente. E sì, un grande amore per il vecchio mondo, senza poter accettare la parola di chi parla di un altro luogo dove andare: la religione del Cristo, dell’aldilà fatta di inferni, purgatori e paradisi.
Così Henry Matisse dice: l’esattezza non è mai verità e io non dipingo cose ma i rapporti che le legano, e così ha scritto il poeta Antonella Anedda di un altro grande poeta, Antonia Pozzi, che la sua ispirazione nasce dalla precisione e che non esistono nelle sue poesie parole approssimate, ma solo termini esatti. Ecco, a me pare che la poesia di Nancy Cunard contenga insieme l’esattezza che la rende ambigua ed ossimorica e la precisione del lessico che la rende vera. Ed infine che non dipinga cose, ma i rapporti che le legano.
In questo libro le poesie proposte sono tratte da Outlaws del 1921, Sublunary del 1923, Parallax del 1925, dai manoscritti della Biblioteca Bodleiana, da poesie inedite o sparse, queste due ultime senza date.
Guerra: «Eppur viviamo e altri per noi muoiono; / … / Troppe corone per l’alto dolore; / … / Stendere una mano poderosa, ordinare alla Morte di arretrare, / Deviare il corso di questo mondo affranto.». E già s’intravede una poesia “civile”, che mi sta molto a cuore, di una donna passionaria che fin dagli inizi abbraccia la figura della flapper che non può vivere senza passione, senza colpi di testa. Ma cos’è la passione se non una ricerca disperata d’affetto e di giustizia? E cosa sono “i colpi di testa” se non il desiderio “violento” di realizzare nel proprio tempo un sogno di armonia e di bellezza?
Trasmutazione: «… Dell’estate – I silenzi sono un dolore muto, / … / Siamo prigionieri del cielo e della terra, / Ostaggi dolenti della memoria.». Do merito alla poesia, ma anche all’ottima traduzione di Annalisa Crea per la capacità di trasmettere emozioni e riflessioni in un istante, e non è cosa facile.
Una vita inquieta, “esplosiva” quella di Nancy Cunard, che qui tratteggio in una sintesi estrema dopo averla appresa dalla necessaria ed esaustiva prefazione. Scrittrice ed editrice – tra gli autori da lei riconosciuti e lanciati ricordiamo Samuel Beckett –, coraggiosa e impavida, il nostro poeta, di una bellezza affascinante da seduttrice seriale ha avuto una vita sentimentale libera e tumultuosa; genitori ricchi poi separati per visioni e passioni diverse, la madre, americana, si curava di un mondo elitario. Nel suo salotto figure del calibro di Yeats, Pound, Shaw, Maugham, Evelyn Waugh, i coniugi Churchill, il principe di Galles. La Cunard, dopo un marito iniziale, molti tra amici e amanti intellettuali e artisti tra cui: Ezra Pound, Louis Aragon, T.S. Eliot, Henry Crowder, Pablo Neruda.
Una donna, che per istinto e per incontri abbraccerà le “lotte civili”, il comunismo come grande utopia di difesa del mondo – Louis Aragon – dal mondo da cui proveniva, ed infine l’Africa a difesa degli ultimi – Henry Crowder, grande pianista jazz americano e nero con cui ebbe la relazione più importante della sua vita – e contro il razzismo sui neri d’America. Ma anche contro l’annessione dell’Etiopia da parte di Mussolini e a fianco degli artisti “rossi” durante la guerra civile spagnola – come non ricordare Federico Garcia Lorca brutalizzato e ucciso in quel modo osceno dalla soldataglia franchista.
“Per quanto?” non è “per sempre”: «… Quando i compagni di tutto il mondo si riuniranno al vostro fianco; / I lavoratori del pianeta e la penna del poeta, / Prendeteli come alleati – la Verità è una marea che avanza – / Oh miei africani, e presto verrà la risposta a “Quando?”».
“In risposta al poeta di Trinidad che mi chiede “… Cos’è che ti ha indotta ad abbracciare anima e corpo la nostra triste causa?” Ad Alfred Cruickshank: «… Le nostre vite sono guerre – Chiedi: “Perché amare lo schiavo, / Il ‘buon selvaggio’ nella fossa del colono, / E noi, suoi discendenti in questo luogo ostile?” / Voce della sfera cosciente, io, la natura e l’umanità, / Ti rispondiamo: “Fratello, istinto, sapere… e poi / Forse un tempo fui africana anch’io”.».
Lincoln: «… Lanciò il suo insulto: “liberazione”. E misero una sbarra / Davanti, dietro, accanto, di traverso all’uomo nero / Ad asseverazione del marchio sulla schiena, / E Lincoln rivestì del suo fumo l’infamia / Da allora fino a Lenin, e tacque il nero oppresso, / Pena una morte indegna – fino al nostro grido: / “Amore, amico, compagno – nero su rosso”.».
Come non pensarla contemporanea nei temi e nella forma! Ce ne fossero oggi di poeti così!!! Ma Pasolini è stato ucciso, e Nancy è ormai morta di quella forma parasuicidaria che ti fanno di una magrezza spettrale, etilista e sola. “Il suo corpo si era consumato in una lunga lotta contro l’ingiustizia del mondo. Non aveva ricevuto altra ricompensa che una vita sempre più solitaria e una morte nell’abbandono”. Queste le parole dell’amico Neruda. Qui la condizione del dramma del mondo quando si fa dramma personale.
In questa sintesi c’è tutto il senso della sua poesia, intrisa della sua sensibilità, della sua permeabilità, dell’uso della ricchezza e del rifiuto delle sue regole e della sua ipocrisia sociale.
Ricordo alla fiera: «Non so da dove venne quella notte la mia pena, / Poiché mute eravamo entrambe, io e la mia pena, …», il silenzio che diventa muto, ed il mentale è corpo. Forse avrei tradotto together sorrow and I, la mia pena ed io, perché è su questo io, in questo io,il silenzio di una solitudine che si ammutolisce in un accapo.
Nebbia: «… Ricordi di istanti lontani, parole di giorno, / Ora nella notte di luce, notte di specchi, / … / Restano senza traccia – Benché la polvere / Levi un pietoso oblio ed il bagliore / Svanisca dagli specchi coi nostri volti andanti.». E come non pensare a René Magritte e non vedere il suo L’impero delle luci, e quei rapporti tra verità e non verità che ci fa andanti negli specchi, sugli specchi, tra gli specchi. Perché siamo e non siamo, riflessi o riflessioni di chi sa chi e di chi sa cosa, benché la polvere levi un pietoso oblio ed il bagliore svanisca dagli specchi.
Solo il tempo si cimenta: «… Oppure partire / In cerca di fede – saltare nel buio, / Gettarsi nel baratro / Mentre una nube / Soffia dubbiose nebbie intorno al cuore? / Solo in questo spasmo / Ghermire e trattenere / Un sogno che vorrebbe tornare a dormire? / Sento il caos …» Sentire il caos mentre si vive e la mente si squassa mentre i temi trattati si susseguono: la solitudine, il silenzio, le lacerazioni per la storia e le storie, l’autunno e la nebbia, la disillusione. E tutto diventa simbolo e metafora per la consapevolezza di non poter raggiungere un equilibrio.
Ma intanto siamo al titolo: Parallax, che in italiano è parallasse. Un poema, qui, tutto per intero in questo libro. Intanto parallasse è uno spostamento angolare apparente di un oggetto, quando viene osservato da due punti di vista diversi. E mi limito a questa scarna definizione. E così ci fa sapere Annalisa Crea: il 1925 segnò una svolta decisiva nella poesia di Cunard, che parve risolversi a seguire i consigli dispensati da Pound e dimostrò di aver appreso la lezione modernista direttamente da T.S. Eliot. Non sto qui a riferire degli innumerevoli rimandi letterari accolti in questo poema, né delle diatribe critiche del tempo, come si apprende nella prefazione, riporto solo questi pochi righi per intenderci subito: su “Outlook del 4 luglio 1925: T.S. Eliot è il primo ad aver udito la nuova musica nella sua piena armonia. Anche Cunard ne ha colto le note. Non si limita tuttavia a fischiettare sulla melodia eliotiana, bensì aggiunge al tema generale orchestrazione e motivi propri. Il modernismo del tempo espresso da questi grandi poeti, assai più contemporaneo di tanti contemporanei nostrani. Importante questo poema proprio per i rimandi a Eliot ma che trasmuta appunto spostando lo sguardo d’osservazione, da un asse ad un altro, come bene ci dice l’esergo di Sir Thomas Browne: “Molte cose vengono conosciute come alcune vengono osservate, ovvero per Parallasse, a una certa distanza dalla loro essenza vera e propria”. Uno sguardo dall’alto, quindi, che può apprendere ed anche rifondare in nuovo modo.
«… Quale mano racchiude l’assoluto, / Cos’è la bellezza? / Silenziosa, l’eco segna a dito la mente senza scala che, / Frastornata dai sensi, s’insinua in pensieri fetali … / (Fuori, parole chiare!) / Il genio è grazia, bellezza – subirò meno inganni / Nella vita, in virtù della parola stampata della bellezza? / Eppure – cos’è la bellezza, dov’è? / Forse negli occhi, quei sentieri, / Scorciatoie per il torbido lago / Della mente. Ma l’occhio che pensa / È vacuo – su quali gusci di conchiglia / Passano i veli d’acqua gelida, / Su quali sassi, su quali alghe? / L’occhio del pensatore è uno spazio vuoto – con parole fiorite …», ma tanto altro tra percezioni figurative, descrittive, riflessive, salti esistenziali che s’intersecano senza discontinuità.
Finisco ricordando dei versi di Lettera, a mio avviso uno dei momenti più intensi del libro, per la morte dell’amico Eliot: «… Che Joe, il cameriere austriaco della “Tour”, si affacciò, / Ci trovò al caldo (notte gelida), vicini: / “Serve qualcosa?” chiese, sorridendo. / “Due gin, Joe, per favore, doppi come prima”. / Eliot parlava ed io ammiravo il suo lento disgelo. / Di cosa avremo discusso con tanta intensità? / Di metafisica? Psicologia? Delle alterne vicende della vita? / … / Ara Vos Prec – E poi La terra desolata / Che in me destò una giusta frenesia. / Non la capisco ancora, né mai / Abbraccerò la sua portata, la sua vastità, la sua interezza. / (Per una che per lo più è ottusa, eccomi, / Sono io.) / Ha cambiato, però, la mia vita a suo tempo, / E le vite dei poeti in molte terre. / E io sono certo fra questi. …».
Cosa dire Della Libertà:«… Dite di me solo questo: / Le foglie fluttuano nei cieli, il vento tace.»
Napoli febbraio 2025