Era  ottobre 

a cura di Rossella PETROSINO

Le figure che popolano il teatro di Tino Caspanello sono quasi sempre ascrivibili alla categoria della marginalità: d’altra parte il drammaturgo proviene dalla “periferia dell’Impero”, che è la Sicilia, e da lì, da quel margine, tenta disperatamente di raccontare il presente. Da questa specifica collocazione geografica nasce la sua condizione di osservatore privilegiato del reale, che guarda quello che accade nel mondo da un punto di vista “altro”, rivendicando la propria identità ed esercitando la capacità di raccontare il contemporaneo. In Sicilia, la vastità e la diversità dei territori e la non facile mobilità tra questi, uniti all’autonomia politica e culturale delle province e delle città metropolitane, rendono il quadro complessivo dello spettacolo dal vivo sicuramente disomogeneo, ma – cosa di non trascurabile interesse – ancora indipendente da un sistema produttivo che quasi sempre risponde ad esigenze contingenti e utilitaristiche, allontanandosi da quelle culturali e identitarie. 

Si definisce un soggetto marginale chi è distante dal centro del sistema sociale cui appartiene e oggi nel nostro Paese gli anziani sono soggetti marginali e la principale criticità di questo fenomeno è legata alla crescita delle famiglie mono-componenti “anziane” ed al loro bisogno di assistenza. Scrive Caspanello, all’interno del volume Crescere nell’Assurdo. Uno sguardo dallo Stretto, a cura di Lorenzo Donati e di Rossella Mazzaglia, edito da Accademia University Press di Torino nel 2018: «Gli anziani sono un compartimento stagno ormai inutilizzato e che non deve più esistere nel nostro sistema economico; noi siamo quelli che dobbiamo produrre, i bambini ancora stanno lì, non hanno diritto perché sono i cittadini del futuro, una bella bugia. Dovremmo ritornare a storicizzare l’essere umano, a ritrovare il suo percorso di anima che non è fatto solo di presente, ma anche di quel passato che si scorge sulle mura». Sono queste le premesse allo spettacolo Era ottobre, in scena il 28 febbraio presso il Piccolo Teatro Giullare di Salerno.  

Ad apertura di spettacolo ritroviamo una panchina su cui è seduto un uomo che dall’abbigliamento sembrerebbe essere un anziano e che rivolge lo sguardo fisso davanti a sé. Di tanto in tanto egli mette una mano dentro un sacchetto di carta, prende dei popcorn e li mette in bocca, alcuni li getta per terra, forse per gli uccelli. Per tre volte, a intervalli regolari, guarda l’orologio che ha al polso. Dopo qualche minuto, un altro uomo appare in scena, alla sua destra e si ferma a guardarlo.

La sensazione che si percepisce subito è di assistere ad una drammaturgia del reale. Questa percezione viene confermata dal primo scambio verbale tra i due personaggi, che indugiano per diversi minuti sul ritardo all’appuntamento, senza indagare sulle eventuali ragioni di questo ritardo o senza derubricare questa questione a un fatto di poca importanza, dato il carattere evidentemente non urgente dell’incontro. La natura della comunicazione si assesta sin da subito su di un registro fatuo, o più propriamente infantile. Questo dato non rappresenta un aspetto negativo, bensì indica l’esplorazione di una porzione di vita e di umanità che difficilmente ritroviamo all’interno di spettacoli o di drammaturgie rivolti all’intrattenimento immediato, come investimento sicuro per tutti. Con questo spettacolo pulito e tenero Tino Caspanello, autore del testo e attore in scena, racconta la realtà senza filtri o artifici narrativi, dedicandosi con coraggio alla messa in scena della vita così com’è: severa e banale. Unisce lirismo ed essenzialità nel racconto di una amicizia, o più propriamente di un accudimento. In questo spettacolo, infatti, è ripreso il motivo degli “assenti” che regolano la vita dei “rimasti” col peso della loro mancanza. Si parte da questo, dalla necessità di confortare e di essere confortati, e da questa esigenza ha origine l’appuntamento quotidiano tra i due protagonisti. I due trascorrono insieme un’ora al giorno, per non rimanere confinati nelle gabbie di città votate ormai esclusivamente all’efficienza e alla produttività e per non soccombere al peso dei ricordi. Il placido  trascorrere una parte del giorno seduti sulla cima della montagna a chiacchierare e l’incoscienza stessa del luogo che si è scelto per l’appuntamento restituiscono il senso della vita. Malgrado piccoli corto circuiti che regalano qua e là spunti di tenerezza e ironia a due vite che, senza dirselo, percepiscono la paura dell’abbandono, assistiamo a scene che  non hanno più segreti da nascondere, battute che escono dalla bocca stessa della verità quotidiana. Bravi i due attori in scena, Tino Caspanello, nei panni dell’amico ritardatario, e Tino Calabrò in quelli di colui che aspetta impaziente; si dedicano l’uno all’altro con discrezione e severa generosità, prendendosi tutto il tempo di cui necessitano per ritagliarsi uno spazio sul palco, riempito da ben poche azioni sceniche e da molti silenzi. Un aspetto rilevante di questo spettacolo è costituito dalla micro-gestualità, molto efficace nella resa non macchiettistica dell’anziano. Felice è la comunicazione tra i due attori, soprattutto nello scambio di parole, a tratti anche di una banalità disarmante, ma che hanno il merito di evitare l’eccessivo indugiare sulla sofferenza e su modalità didascaliche. Prima ancora del testo del drammaturgo siciliano, è la messa in scena a suggerire una importante riflessione sul tempo, ovvero sull’importanza di ritagliarsi un intervallo per l’anima, assumendosi il rischio del nulla, della banalità, del vacuo e del non senso. Da questo punto di vista ci sembra più che coraggiosa e rispettabile la scelta di questo drammaturgo di produrre uno spettacolo che custodisce il sacrosanto diritto di non raccontare nulla, di non aver predisposto un innesco, un conflitto e una risoluzione con il solo scopo di produrre senso. D’ altra parte è lo stesso Tino Caspanello a chiarire questo aspetto durante il consueto dibattito che segue tutti gli spettacoli della rassegna ospitante(1), quando dice «In questo spettacolo non vi è azione scenica! Perché produrre qualcosa? Chi lo ha imposto?» e aggiunge, a scanso di equivoci, «Le arti che oggi dovrebbero proporsi come intercettazione di una metafisica, non riescono più a farlo, perché sono dentro un meccanismo produttivo». Quello che il drammaturgo siciliano fa con questo testo allora è produrre silenzio contro una cultura del contemporaneo che non fa altro che stratificare segni, che molto spesso non hanno il potere di raccontare quello che ci circonda. Le atmosfere di questo spettacolo riportano senz’altro al suo grande successo Mari, laddoveritroviamo soprattutto la stessa empatia che l’autore rivolge nei confronti dei suoi personaggi e il medesimo clima di sospensione. Ma la lingua cambia. Il drammaturgo sceglie di non adottare la lingua siciliana e di veicolare in questo caso una riflessione sulle generazioni che se ne stanno andando.

A parte la cornice sonora che apre e chiude lo spettacolo, non vi sono altri interventi di musica e neanche particolari movimenti di luci, oltre la già citata mancanza di azione scenica. È un’ora di vita reale prestata alla scena. Questo spettacolo fa pensare al Daniel Pennac bambino di Un amour exemplaire che, introdottosi nella quotidianità di una coppia di innamorati, alla domanda che gli viene posta a che cosa giocasse in casa di Jean e di Germaine, Daniel risponde: «A niente, li guardavo vivere».

1)Lo spettacolo si inserisce all’interno della rassegna “Mutaverso Teatro – IX Edizione (2024-2025)” Cfr.  https://www.ablativo.it/mutaverso-teatro-cat/mutaverso-nona-edizione-2024-2025/

ERA OTTOBRE
PICCOLO TEATRO DEL GIULLARE – SALERNO
28 FEBBRAIO 2025
testo e regia 
Tino Caspanello
con
Tino Calabrò e Tino Caspanello
scena e costumi 
Cinzia Muscolino
Produzione Teatro Pubblico Incanto